Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 20 Mercoledì calendario

LA VERA STORIA DI CORNELIUS GURLITT


Il campanello, a casa di Cornelius Gurlitt, suona a vuoto. Non è una novità: non ha risposto a nessuno per decenni, pur di tenere segrete le sue 1.406 opere d’arte di valore inestimabile, in larga parte sottratte agli ebrei negli anni del nazismo. Non ha mai fatto entrare nessuno, nemmeno i parenti più stretti, che comunque preferiva non frequentare. «Accettava di vederci raramente e mai a casa» ricorda il cugino, che fa il fotografo a Barcellona. L’unico che è riuscito ad avvicinarsi al suo segreto, forse, è stato il cognato, che si è ricordato di avere 22 quadri di valore in casa solo una settimana dopo che il nome di Cornelius Gurlitt era su tutti i giornali. Gurlitt era riuscito a celare il suo segreto per quasi 80 anni, vivendo una vita nell’ombra, divisa tra una casa in campagna vicino a Salisburgo, dove si dava alla pittura e al restauro, e il suo appartamento a Monaco, 100 metri quadrati al quinto piano di un palazzo disadorno ma nel cuore di uno dei quartieri più ricchi della Germania, a due passi dal Giardino Inglese. Poi la polizia l’ha fermato mentre tornava in treno dalla Svizzera, il 22 settembre 2010. Era un controllo di routine, di quelli che la polizia fa spesso nel distretto di Augusta: basta gettare le reti e qualche furbetto di ritorno dalla Svizzera, dopo aver depositato o prelevato soldi, lo si pesca sempre. Il signor Gurlitt non aveva niente di irregolare, ma quei 9 mila euro in contanti con cui viaggiava e la sua reazione fin troppo agitata avevano insospettito gli agenti. Ben presto si sarebbero accorti di avere fermato un fantasma: quel 78enne di Monaco non aveva un numero di previdenza sociale né una pensione o un’assicurazione medica. Non risultava che avesse mai lavorato, ma non aveva comunque mai richiesto sussidi. Il controllo a casa del fantasma, il 28 febbraio 2012, avrebbe lasciato, però, un segno nella storia: quel vecchietto solitario, che aveva accolto gli agenti in pigiama, viveva circondato da 1.406 dipinti, di cui 121 incorniciati.
«Potevate almeno aspettare che fossi morto» ha detto Gurlitt agli agenti, seduto al buio in soggiorno, circondato dai quadri che sono stati la sua ricchezza e la sua maledizione. Se n’era occupato fin da ragazzino e aveva campato per quasi 80 anni vendendo, all’occorrenza, qualche esemplare minore della sua collezione (stimata, in totale, oltre 1 miliardo di euro). Gurlitt non si è mai rivolto al mercato nero, metteva i dipinti sul mercato in modo legale, alla luce del sole. C’è riuscito anche nel 2011, vendendo Il domatore di leoni di Max Beckmann, sebbene il fisco stesse già indagando sul suo conto. Gurlitt non avrebbe voluto venderlo: «Avevo scelto un altro, ma ero troppo debole per toglierlo dalla parete» ha spiegato al settimanale tedesco Der Spiegel. Alla casa d’aste Lempertz, a Colonia, «sono stati molto gentili»: lui ha spiegato di avere ricevuto il quadro in eredità dalla madre e loro, dopo un controllo scrupoloso, hanno trovato gli eredi del precedente proprietario, che, dopo un accordo con Gurlitt, sono stati felici di incassare 325 mila euro dei 725 mila a cui il quadro è stato battuto all’asta. Il resto è spettato a Gurlitt che aveva bisogno di soldi per curare un problema al cuore che lo costringe a prendere il taxi anche per andare a fare la spesa a 200 metri da casa.
Quei quadri gli erano stati affidati dal padre, Hildebrand Gurlitt, una delle tante figure controverse degli anni del nazismo. Interrogato dagli americani, nel 1950, si definiva «un mezzosangue che non ha mai collaborato con il regime», e in parte diceva il vero: aveva dovuto lasciare il museo di Zwickau, «un’istituzione di provincia che avevo trasformato in un centro vivace», perché i nazisti avevano scoperto che la sua nonna paterna era ebrea (una Lewald di Königsberg). Joseph Göbbels, il ministro della Propaganda del Terzo Reich, però, gli aveva fatto una proposta: usare i legami che il gallerista aveva all’estero per vendere quell’arte contemporanea che Adolf Hitler riteneva «degenerata» ma che comunque fruttava grandi somme di denaro. Hildebrand Gurlitt accettò e iniziò a girare per l’Europa. Aveva una doppia missione: trovare «arte degenerata » da vendere e capolavori da destinare al museo che Hitler voleva costruire a Linz. Hildebrand fece molti viaggi in Svizzera. Dal 1941 al 1945 era di base a Parigi, nell’Hotel de Jerse. Parlava con scioltezza francese e inglese, frequentava intellettuali del calibro di Thomas Mann. Faceva acquisti di un certo peso: spese più di 1 milione di franchi dell’epoca per comprare i quattro dipinti più costosi presenti a Parigi in quegli anni. Secondo alcuni si era assicurato dipinti a prezzi da strozzino, secondo altri i proprietari ebrei gli avevano affidato opere che, senza di lui, non si sarebbero potute salvare. Fra i testimoni sentiti dai militari americani c’è un ufficiale Usa che lo descrive come «una persona non di buon cuore», ma anche alcuni perseguitati dal regime che raccontano del «suo attivismo, che aveva reso la casa Gurlitt un centro di cultura antinazista». Per suo figlio Cornelius, Hildrebrand è un eroe che collaborò con il regime «solo perché voleva salvare i dipinti». Agli alleati, che gli confiscarono tutto, disse che le opere erano sue e loro, due giorni dopo l’interrogatorio, gliele restituirono. Fra i documenti americani, però, c’è un elenco dettagliato di 81 quadri. Da dove vengono gli altri 1.300? «Da musei e galleristi» sostiene Cor- nelius Gurlitt «è possibile che qualche privato abbia offerto delle opere a mio padre, ma lui non può averle accettate, avrebbe trovato l’offerta spregevole». Il figlio Cornelius non ha aggiunto pezzi alla collezione: «Non ho mai comprato un dipinto, mi sono limitato a salvarli» dice. È una missione che ha ereditato prima del bombardamento di Dresda, nel febbraio 1945: «Mio padre sapeva che i russi stavano arrivando, così ha noleggiato un veicolo per portare i dipinti in una fattoria vicino a Dresda. Poi li ha spostati in un castello nel sud della Germania. Conosceva persone in tutto il paese e io lo aiutavo. Avevo 13 anni».
Hildebrand sarebbe morto nel 1956, in un incidente d’auto. La moglie, l’ex ballerina Helene Hanke, sarebbe stata interpellata dalle autorità tedesche nel 1967: «Non abbiamo più un quadro, è andato tutto distrutto nel bombardamento di Dresda» aveva risposto. Invece l’incredibile collezione dei Gurlitt era sopravvissuta alla guerra ed era stata trasportata nell’appartamento di Monaco in cui Helene andò a vivere con il figlio nel 1961. Chi li ha aiutati a spostare tutti quei quadri, senza che nessuno (ufficialmente) notasse nulla di strano? Forse è stato lo stesso Cornelius Gurlitt, allora 29enne, a fare tutto. Lui, per quello che conta, non voleva andare a vivere in città: «Mamma sognava una vita da bohemienne, ma si sbagliava. Monaco è la madre di tutti i mali, è qui che è nato il nazismo. Se fossi vissuto altrove, tutto questo non sarebbe successo» dice Gurlitt, che è consumato dal rimorso. Sente di avere fallito nel suo compito: ha permesso a dipinti e disegni, opere d’arte così fragili, di sopravvivere alla furia del regime e della guerra, ma poi se li è fatti sottrarre da «questo stato da cui non ho mai voluto niente e con cui non ho intenzione di parlare». Si sente tradito dalla sorella, morta di cancro l’anno scorso: «Avrebbe dovuto vivere più a lungo di me, le avrei lasciato i dipinti e lei avrebbe saputo cosa farne».
Dopo il sequestro Gurlitt ha passato 10 giorni immobile, seduto al buio, nel suo salotto. «Non me l’aspettavo» ha detto a Der Spiegel «ora i quadri mi mancano terribilmente. La gente, quando li guarda, vede solo soldi. Io invece ho vissuto con loro, fin da quando giocavo tra i dipinti da bambino. Sono la cosa che ho amato di più in vita mia». Dice che le autorità gli hanno assicurato che parte della sua collezione tornerà in suo possesso. Lui non è d’accordo: li rivuole tutti. Non li lascerà nemmeno ai musei, «che hanno già tante altre cose da mettere in mostra».
Gurlitt sente di non dovere niente a questo mondo che non capisce. Non parla mai con nessuno, prenota gli alberghi con mesi d’anticipo, con lettere scritte a macchina. Lo sorprende che sul display dei telefoni compaia il numero di chi sta chiamando. Si appunta sui bigliettini le frasi per fare buona impressione sui medici che lo curano. La giornalista dello Spiegel che l’ha accompagnato all’ultima visita l’ha visto lasciare 20 euro al tassista che, per 300 metri di percorso, gliene aveva chiesti 3,40. Gurlitt ora vuole solo una cosa: morire con i suoi quadri. Il resto non gli interessa. Quello che sa del mondo l’ha letto nei libri. Non vuole la compagnia di nessuno. Quando la cronista gli chiede se si sia mai innamorato di qualcuno, sorride. E risponde: «Oh, no».