Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 20 Mercoledì calendario

E POI CI VEDIAMO IN TV


Le cose, viste da lontano, si capiscono meglio. Per cercare di capire Matteo Renzi – salutato da molti come salvatore della sinistra e del Paese, da altri considerato un bluff, di certo uomo nuovo della nostra politica – abbiamo fatto volare da Amburgo a Firenze un intervistatore speciale. Giovanni di Lorenzo fino a dieci anni fa aveva solo il passaporto italiano eppure occupa, dal 2004, una delle poltrone più ambite nel panorama giornalistico internazionale: quella di direttore del settimanale Die Zeit, considerato il più prestigioso in Germania. A Renzi non ha chiesto dell’immediato presente: non del caso Cancellieri – dove il sindaco di Firenze è stato il primo dentro il Pd a chiedere le dimissioni del ministro –, non dello scisma del centrodestra, non delle «pre-primarie» – dove è riuscito, malgrado l’appoggio degli «anziani» del partito (D’Alema in testa) al rivale Gianni Cuperlo, a prendere la maggioranza dei voti nei circoli del Pd – e neppure tanto delle primarie vere e proprie dell’8 dicembre che, secondo tutti i sondaggi, lo consacreranno nettamente nuovo segretario e candidato premier alle prossime elezioni. Gli ha chiesto invece, soprattutto, del futuro.

So della sua ammirazione per Obama. Ma Obama si è caricato di troppe speranze, che una dopo l’altra sono state deluse. Non è una cosa che rischia di succedere anche a lei?
«Oggi l’Italia ha il problema opposto. Che, pur avendo tante risorse, è un Paese privo di speranze. Preferisco tenere alto il livello della speranza che vivere di un cinismo rassegnato, come fanno fin troppi politici. La frase più stupida e più emblematica di questo atteggiamento è: “Non facciamo la fine della Grecia”. Non faremo la fine della Grecia perché è vero che l’Italia ha vissuto e vive ancora una fase di difficoltà, ma è la manifattura d’Europa. Il guaio è che abbiamo un’ambizione molto bassa 
e l’incapacità di risolvere i nostri problemi: burocrazia, tasse, evasione fiscale, giustizia. Basterebbe così poco per rimettere in moto il Paese».
Di quei problemi si parla da quando ero bambino: pensa davvero che basti poco per cambiare?
«Assolutamente sì. Diventano mali cronici se pensiamo che debba cambiare sempre e soltanto il vicino, non noi. Io non dico che debba cambiare tutto: io dico che dobbiamo cambiare tutti. A partire dai politici. Via le province, via il Senato, via la metà delle poltrone nei consigli regionali, nelle giunte, nelle aziende partecipate. Dimezzare il numero dei politici, raddoppiare il numero delle biblioteche e degli asili nido: su 100 famiglie che fanno richiesta solo 14 trovano posto, si rende conto? Se io a Firenze ho dimezzato gli assessori – e cinque sono donne, più che gli uomini – lo può fare anche il Pd, lo possono fare tutti. A dieta la politica, poi la burocrazia: faccio il sindaco e ci sono giorni in cui sbatterei la testa contro il muro».
Per esempio?
«Se vuoi fare un parcheggio sotterraneo a Firenze, ci metti 38 mesi per avere i permessi, 18 per realizzarlo. E parlo del posto più sfigato di Firenze, perché se invece entrano in ballo le sovrintendenze, che hanno potere di vita e di morte, neppure sai quando inizi. Negli appalti pubblici lavorano più gli avvocati che i muratori».
Mi scusi, ma perché i politici italiani dovrebbero autoridursi?
«Perché non hanno alternativa, altrimenti il Paese va a rotoli. Mi rendo conto, è come se un tacchino in America chiedesse di anticipare la Festa del Ringraziamento. Però siamo a un punto di svolta. La disoccupazione è passata dal 6,7 per cento al 12,4 per cento. I media parlano sempre di spread dei titoli di Stato, ma c’è anche uno spread della disoccupazione: la Germania mi pare sia al 5,2 e l’Austria al 4,9. E c’è uno spread­ sui tempi della giustizia: in Germania in media ci si mette meno di un anno per completare il primo grado, da noi quattro».
Sta dicendo che gli italiani sono talmente esasperati da volere un cambiamento radicale?
«Ora o mai più. So che è un paradosso, ma la crisi è l’ultima occasione che abbiamo».
Ma, guardandovi da fuori, non sono solo i politici a paralizzare l’Italia. Ci sono anche le forti categorie di settore, dai tassisti ai notai.
«Le corporazioni sono forti se la politica è debole. Ero appena stato eletto quando ho annunciato: tra un mese pedonalizziamo piazza del Duomo. Non mi hanno creduto, per loro ero un ragazzino. Erano 45 anni che a Firenze si discuteva, i miei stessi collaboratori hanno detto: un mese? Le corporazioni se ne sono accorte l’ultima settimana: oh ma questo è matto, fa sul serio. Allora sono partite le proteste, ma era troppo tardi. Quel momento lì è stato la rottura dell’incantesimo, come nelle favole, la principessa, la foresta incantata. L’Italia può rompere l’incantesimo. Non parlo solo dei tassisti o dei notai, tutti devono cambiare».
Anche i sindacati?
«Certo. Tanto per cominciare, che senso ha avere tre sindacati più tutti quelli autonomi? E poi i loro bilanci devono essere trasparenti e certificati. Infine: in Germania il sindacato partecipa al consiglio di amministrazione dell’azienda, ma il lavoratore sceglie, vota il suo candidato del sindacato, e chi vince entra in consiglio. Da noi sono scelti dai gruppi dirigenti».
Tasse: uno dei grandi problemi, diceva.
«È imbarazzante questa eterna discussione sulla singola tassa, l’Imu o l’Iva. Abbiamo una pressione fiscale allucinante. Non possiamo più dire: in America essere di sinistra significa alzare le tasse. In Italia essere di sinistra vuol dire abbassarle! I nostri imprenditori sono eroi in confronto a quelli di altri Paesi. L’azienda italiana rispetto a quella tedesca ha il 30 per cento di costo di energia in più, un peso fiscale maggiore e una burocrazia opprimente. Eppure molti imprenditori riescono lo stesso a fare bene il loro mestiere, perché sono bravi».
Le grandi aziende italiane però non hanno fatto una gran bella figura negli ultimi decenni, né dal punto di vista imprenditoriale né da quello morale.
«Ma non c’è dubbio. Infatti le grandi aziende italiane, con tutto il rispetto, non sono le aziende di cui hanno parlato i giornali in questi anni. Anche perché poi sarebbe interessante discutere di come sono i giornali. L’intreccio tra i giornali le banche e le imprese…».
In Germania sarebbe impensabile.
«È folle: se fai l’editore fai l’editore, se fai la banca fai la banca. Quando io propongo una rivoluzione del sistema, intendo il cambiamento radicale della politica ma anche dei comportamenti. La forza dell’Italia, comunque, non è la Fiat, sono le piccole e medie aziende che competono e che riescono, nonostante i politici. E c’è un’altra cosa che in un altro Paese sarebbe impensabile: un fortissimo nero. In Italia c’è un sistema di evasione fiscale che la Banca d’Italia stima in 150 miliardi di euro. Bisogna riportare legalità attraverso il buon esempio, far tornare di moda il fare le cose per bene. Ma chi può andare avanti non assume perché ha paura, le regole di assunzione sono assurde: noi proporremo, se io sarò eletto segretario, una riforma radicale del mercato del lavoro sull’esempio tedesco. La Germania è un modello. Io non capisco la polemica italiana contro la Germania, e talvolta non capisco neanche la polemica tedesca contro l’Italia…».
Guardi che quella non c’è e non c’è mai stata.
«Benissimo! Perché la Germania ha bisogno di un’Italia vera e forte, e l’Italia ha bisogno di vedere la Germania come il punto di riferimento, non come il nemico. Il mercato della formazione professionale va copiato da quello tedesco: l’unica zona d’Italia in cui funziona veramente bene è l’Alto Adige».
Il cosiddetto sistema duale: esperienza pratica in azienda abbinata a un programma scolastico.
«Esatto. E poi abbiamo bisogno di semplificare il mercato del lavoro. Non solo abbiamo tre sindacati confederali e decine di sindacati autonomi: abbiamo 2.146 articoli di diritto del lavoro».
Semplificare che cosa significa?
«50, 60, 70 articoli scritti con chiarezza in italiano e in inglese. Conosco aziende che potrebbero venire a investire in Italia ma hanno paura del sistema, e a ragione, avrei paura anch’io. Chi però supera la paura e investe vince. Qui a Firenze, Pignone è stato venduto agli americani e in vent’anni ha decuplicato il fatturato. L’italianissima Gucci è stata comprata dai francesi: dieci anni dopo fa quattro volte il fatturato che faceva prima».
C’è differenza tra rivoluzionare e rottamare? E si è pentito di aver usato quella parola che ormai è il suo sinonimo? Matteo Renzi, il rottamatore.
«Mi hanno ridotto a questo, ed è un limite».
Lo dica: quella parola è stata un errore, non la userò più.
«Ci ho pensato, e no, non è stato un errore. Se non l’avessi usata, non avrei avuto visibilità. Se io avessi detto: “Chiedo il ricambio generazionale”, sarei sembrato come tutti gli altri. La sintesi è perfetta, inevitabile ma non gradevole. Il punto è rottamare non soltanto le carriere politiche, ma il sistema. Perché in Italia ogni euro che le banche mettono dentro operazioni “di sistema” – per esempio per l’Alitalia, o per salvare determinati imprenditori – è un euro che tolgono all’artigiano di Firenze o alla famiglia di Crotone? Le banche devono fare le banche. Io spero che escano dal controllo del Corriere della Sera e lascino fare a un imprenditore, chiunque sia. Se la giochi chi ha investito».
E se la classe politica non capisce il bisogno di cambiamento? Ci sarà una rivoluzione?
«Non nel senso violento del termine. Ennio Flaiano diceva: “Noi italiani vogliamo fare la rivoluzione con il permesso dei Carabinieri”. E qualcosa è già cambiato. Abbiamo il Parlamento più giovane d’Europa. Era il più vecchio, ma la mia battaglia, la battaglia di tanti di noi, ha portato a un rinnovamento generazionale. Adesso servono le idee».
E se non arrivano?
«C’è una cosa che forse fa ancora più paura della rivoluzione: l’allontanamento dei cittadini. Otto milioni di italiani, pur di cambiare, hanno votato Beppe Grillo. Che cosa dovevano fare di più per dire: cambiate?».
Che cosa significa il successo di Grillo?
«La risposta demagogica e populista, che c’è in tutta Europa – è il vostro Partito dei Pirati, è Marine Le Pen in Francia –, a un certo scontento: non vogliamo più le stesse facce che ripetono gli stessi discorsi. Il messaggio è arrivato e comunque l’Italia è sul punto del cambiamento, perché l’esperienza di Berlusconi è sostanzialmente chiusa».
Sicuro? Nei sondaggi piace ancora e questo per un tedesco, di destra o di sinistra, è incomprensibile.
«Non è che i tedeschi non capiscono. Nessuno, fuori dall’Italia, capisce».
Ci spieghi lei.
«Non ho capito neanche io, ma mi sono fatto una mia idea. Berlusconi ha rappresentato per vent’anni un’idea forte di novità. Ed è stato molto bravo, in campagna elettorale, a presentarsi sempre come quello nuovo».
Nuovo in che cosa? Persino in economia, pur essendo un imprenditore, ha fatto lo statalista.
«E questa è la cosa più incredibile. Perché Berlusconi è entrato nel mondo del calcio e lo ha cambiato, in quello dell’edilizia e lo ha cambiato, in quello della Tv e lo ha cambiato. Si può discutere se in meglio o in peggio, però il cambiamento lo ha portato. Poi è entrato in politica e non ha cambiato niente».
Non ha cambiato in peggio?
«Sì, ma è stato agevolato da una sinistra subalterna. La responsabilità è di Berlusconi, però la sinistra non lo ha sfidato sul terreno della concretezza. Io dicevo: facciamo un dibattito televisivo e chiediamo a Berlusconi che cosa ha fatto per riformare la burocrazia. Ha sempre parlato di Imu da togliere, di tasse da abbassare, ma poi non le ha abbassate, anzi la pressione fiscale è aumentata. Ha detto: noi siamo contro lo Stato. Ma poi ha aumentato la spesa pubblica. In questo scenario, la sinistra lo ha contestato più come persona che non come politico. Capisco che venga naturale contestare la persona. Però la verità che bisognerebbe dire è che Berlusconi ha cambiato l’Italia molto di più con le sue Tv che con le sue leggi».
I suoi programmi hanno cambiato o instupidito l’Italia?
«Io sono abituato a non dare un giudizio etico sui miei cittadini, e credo che la sinistra debba uscire dal vizio di considerare stupidi quelli che non la votano. Un atteggiamento speculare a quello di Berlusconi, che diceva (imita il Cavaliere, ndr) “Ci sono quelli che votano per me e poi ci sono i coglioni che votano a sinistra”».
Che per lui poi sono tutti comunisti.
«Tutti. Viceversa, io ho detto: “Dobbiamo andare a prendere il voto di chi per vent’anni ha votato Berlusconi e oggi è deluso”, e la sinistra mi ha attaccato: “Sei un infiltrato”. Ma il non prendere il voto degli altri, alla fine, che cosa ha portato? Le larghe intese».
Che cosa intende, quando descrive la sinistra italiana come subalterna?
«È stata soprattutto una subalternità culturale. La sinistra ha avuto la puzza sotto il naso, ha pensato di essere superiore, e quindi di non aver bisogno di andarsi a riprendere voto per voto, casa per casa. Invece a me interessa anche il voto di chi ha scelto Lega o Berlusconi per una vita. Così come mi interessano gli ex di sinistra che oggi sono delusi. Diciamo la verità: Berlusconi ha vinto anche perché, quando la sinistra è stata al potere, si è divisa».
E non è neppure riuscita a varare una legge per limitare il suo potere televisivo.
«Perché, anche quando ha perso, Berlusconi ha dettato l’agenda».
Per incapacità della sinistra o per strapotere suo?
«Per incapacità della sinistra. Io sono dell’idea che, se gli altri giocano più forte di te, la colpa è tua».
Un altro mistero, visto da fuori: come fa tanta gente, di fronte all’evidenza del reato e degli scandali, a dire: «È la magistratura che perseguita Berlusconi»?
«Capisco lo stupore: come fa una persona condannata in terzo grado per evasione fiscale a rimanere in Parlamento? Io ho sempre detto: massimo garantismo. Cioè, finché Berlusconi non è condannato, per me è innocente. Ma quando sei condannato, sei condannato. Stop».
Berlusconi ha definitivamente rovinato il tasso etico in Italia?
«Sì, ma sarebbe interessante capire se lo ha abbassato lui o si è inserito in un quadro già compromesso. Berlusconi è stato il perfetto italiano. Andava alla Guardia di Finanza a dire (lo imita di nuovo, ndr): “Se le tasse sono più del 33% è giusto evadere”. Attenzione: diceva una cosa che pensano in tanti. Ma se sei politico devi abbassare le tasse, non fare i discorsi. Però...».
Però?
«Però, attenzione: è comodo scaricare tutte le colpe su Berlusconi. A me fanno schifo quelli che per vent’anni gli sono stati dietro, lo hanno riverito, e adesso lo abbandonano. Gli avvoltoi non mi piacciono. E comunque basta parlare sempre di Berlusconi.
Sono vent’anni che parliamo solo di una persona. Vorrei che nei prossimi venti anni parlassimo degli altri 60 milioni di italiani. Mi sono stancato di quelli che dicono: tanto non cambieremo mai. Se pensi che non cambierà mai niente, scegli un altro mestiere. Non puoi fare politica se hai paura di cambiare».
Quando le dicono che è un Berlusconi di sinistra, lo prende come insulto o come complimento?
«Lo prendo come un tentativo di rovinare l’elemento di novità che noi vogliamo essere. Non c’è una persona da cui mi senta più diverso che da Silvio Berlusconi. Ma non giudico chi lo vota».
E se l’apprezzamento le viene da un personaggio come Flavio Briatore?
«Se Briatore la prossima volta vota per il Pd invece che per Berlusconi, sono contento. Vale per lui come per chiunque: il Pd vincerà soltanto se prenderà voti anche dagli altri schieramenti politici».
Riceve più attacchi dal suo partito o dagli altri?
«Prima dal mio, adesso mi attacca anche la destra, il Giornale di Berlusconi. Ma come i complimenti finti non aggiungono niente alla mia persona, gli insulti finti non le tolgono niente. Io ho l’ambizione di cambiare l’Italia. Se ce la facciamo bene, se non ce la facciamo almeno abbiamo combattuto una battaglia bella. Almeno non dirò ai miei figli: l’Italia è un Paese dove non è possibile cambiare. Io ci provo».
L’8 dicembre ci sono le primarie: quante chance si dà di vincere?
«Dire che sono ottimista non porta bene, ma io non sono scaramantico. Quindi mi do il 51% di possibilità».
Sarà un’elezione onesta, senza trucchi?
«Questa volta, sì».
Si sentirebbe, a 38 anni, abbastanza maturo per fare il presidente del Consiglio?
«Assolutamente sì. Ho molti difetti e limiti quindi, se la domanda è “Ti tremano le gambe?”, la risposta è sì. Ma a 38 anni sei pronto per fare tutto: solo in Italia si pensa che uno alla mia età sia ancora giovane. L’età non è un problema, anzi, spero di avere una vita anche dopo la politica...».
Vuole tornare nell’agenzia di marketing di suo padre?
«Non credo. Ho mille sogni per il dopo, perché sono curioso, affamato di vita. Mi piacerebbe insegnare».
Come sua madre, come sua moglie?
«Sì, magari però all’università. Oppure diventare conduttore televisivo, che so».
Tutti le riconoscono grandi capacità di auto-marketing, soprattutto in Tv. Si è presentato ad Amici, in una delle reti di Berlusconi, con un giubbotto di pelle alla Marlon Brando. Non si è pentito di un’apparizione così piaciona?
«Assolutamente no. Questo sono io, con i miei limiti e i miei difetti. Non ho dietro geni del marketing. Quel giubbotto mi piaceva, ho pensato: o me lo metto lì o non è che me lo posso mettere in consiglio comunale».
L’ha comprato apposta?
«No! Ce l’avevo anche ieri alla partita. Al di là del giubbotto, molti mi hanno contestato la scelta di andare: Amici secondo loro non è una trasmissione da leader di sinistra. Ma la sinistra in Italia è troppo settaria: va aperta, spalancata. La sinistra pensa che comunicazione sia una parolaccia. Per me il marketing, inteso come comunicazione, è una bella parola».
Quanti follower ha su Twitter?
«Aspetti un secondo che glielo dico: 665 mila 900. E i tweet li ho sempre scritti io. Non sono un prodotto di plastica».
Come fa uno di formazione democristiana a guidare una sinistra unita?
«Dovendo scegliere tra sinistra e destra, io sto con Kennedy, Obama e Blair, non con Reagan, Bush e la Thatcher. Ma non ho fatto in tempo a stare nella Dc: non ho mai trovato il simbolo sulle schede elettorali».
Però culturalmente questa sinistra sembra lontanissima da lei, un altro pianeta.
«Che cos’è la sinistra oggi? Per me la sinistra è l’ambiente. Io a Firenze ho lanciato il piano “stop mattoni”. Continuavano a costruire, anche quelli di sinistra, ho detto basta. La sinistra è un giardino per le mamme. È un ambiente a misura d’uomo. È l’investimento in cultura, sono gli asili nido. È l’innovazione tecnologica, è la digitalizzazione, è il cambiamento.
Paradossalmente la sinistra, che nel mondo dovrebbe essere futuro e innovazione, da noi è passato e conservatorismo».
Che cos’è oggi una posizione di sinistra sull’immigrazione?
«Trovo ridicola l’idea della Lega, e anche di Berlusconi, di giocare sulla paura. Della tragedia di Lampedusa mi restano in mente i morti numero 288 e 289, una mamma trovata con il neonato che aveva appena fatto, c’era ancora il cordone ombelicale, ha partorito negli ultimi minuti della sua vita. Una donna così, che rischia la vita con il suo bambino, secondo loro non viene in Italia perché c’è la Bossi-Fini? Ma che vergogna».
Ha detto: se qualcuno ha paura di me, fa bene ad aver paura, perché certe cose le cambierò davvero.
«Ma non c’è dubbio! Se gli italiani vorranno cambiare radicalmente, ci sarò io. Se invece non lo vorranno, faranno bene a non votarmi. Lo dico senza spocchia, e con un po’ di sano senso dell’umorismo. Non come questi politici italiani, sempre serissimi, sempre arrabbiati...».
...e sempre a Porta a Porta: non va rottamata anche certa Tv?
«Sa qual è il vero problema dell’Italia? Non dove va il politico, ma come ci va. Il politico ci va con la scorta, con l’auto blu, con i lampeggianti. A me piace stare in mezzo alla gente. L’altro giorno dovevo andare a colazione qui vicino e sono andato a piedi, ci vogliono 10 minuti, ma ci ho messo un’ora, perche gli elettori si fermavano, facevano polemiche, critiche, complimenti. I politici devono sapere che non sono in missione per conto di Dio. Che sono persone normali, come tutti, e a un certo punto devono anche lasciare. E quando ci stanno devono dare il massimo, perché ci butti il cuore, perche l’Italia ne ha bisogno, perché tu vuoi bene a questo Paese, a questa città, alla comunità che rappresenti. Invece ci sono politici che dicono: “Lo facciamo perché è un servizio...”. Ma dite la verità, per favore! Dite che è bello, che è entusiasmante, che è appassionante. Quando non è più bello, andate a fare un’altra cosa».
Ci racconta del suo incontro con la cancelliera Merkel?
«In Italia è stata accompagnata dalla polemica dei giornali di destra, quelli vicini a Berlusconi, che la vedono come responsabile della crisi italiana. Tutte le volte hanno bisogno di un alibi, di un colpevole. Perché non c’è responsabilità. L’Italia deve mettere a posto il suo debito pubblico non perché ce lo chiede la signora Merkel ma perché ce lo chiedono i nostri figli e i nostri nipoti. Ce la si può fare, e la Merkel è interessata a che l’Italia faccia bene il suo mestiere. Italia e Germania non sono l’una contro l’altra, stanno remando insieme in un mondo che cambia e che rischia di mettere l’Europa ai margini. O remiamo nella stessa direzione, o ci troveremo più deboli».
È quello che dice la Merkel.
«Poi mi piacerebbe discutere – lo fa il presidente del Consiglio, lo fanno alcuni ministri – del fatto che alcune regole dell’Europa vanno cambiate. La regola del 3% è vecchia di vent’anni e sbagliata concettualmente. Però gli italiani questo lo possono dire solo se prima dimostrano di voler cambiare le regole in casa loro. Certi giornali italiani hanno voluto far credere che la Merkel sia la capa incontrastata a cui non si può dire niente. Io invece vorrei dire: “Cara signora Merkel, insieme cambiamo le regole e facciamo dell’Europa un luogo ospitale per le prossime generazioni”. Mi ha colpito molto umanamente. La sua sobrietà non c’è in Italia».
In che senso?
«Mi aveva dato appuntamento la mattina alle sei e mezzo a Berlino. Per non fare l’italiano, ero lì alle sei e venti. Sono entrato, c’era solo una segretaria. La cancelliera mi ha ricevuto alle sei e ventinove, è venuta sulla porta a prendermi. Mi ha colpito perché arrivi a Palazzo Chigi e trovi il cerimoniale, i pinguini. E invece lì è stata una cosa molto semplice, però molto di sostanza».
Ricorda la prima cosa che le ha detto?
«Mi ha chiesto come stava Mario Gomez alla Fiorentina. Pensi un po’, anche questo sapeva».