Stefano Agnoli, Corriere della Sera 20/11/2013, 20 novembre 2013
«SPAZZATURA» NUCLEARE, ECCO DOVE FINIRANNO LE SCORIE
Sono novantamila metri cubi di rifiuti. Potrebbero riempire il palazzetto dello Sport di una città di provincia. La questione è che si tratta di «spazzatura» molto speciale: scorie prodotte dalla stagione nucleare italiana (quella chiusa con il referendum del 1987) e residui di altre attività, soprattutto medico-radiologiche. Sono tutte radioattive, ma in grado diverso: quelle più delicate, ad alta attività, occupano quindicimila metri cubi ma sono responsabili del 90% della radioattività emessa. Una buona parte è all’estero — in Francia e in Gran Bretagna ma anche in Svezia — in attesa di fare ritorno in Italia sotto forma di blocchi vetrificati.
La ricerca delle aree
Il problema è che da qualche parte prima o poi dovranno pur essere sistemate; la notizia è che probabilmente entro dicembre l’Ispra renderà noti i criteri tecnici ai quali il deposito nucleare nazionale dovrà uniformarsi ed in sette mesi, quindi entro il prossimo agosto, la Sogin (la società pubblica che si occupa dello smantellamento delle vecchie centrali) dovrà mettere nero su bianco la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Strana e curiosa coincidenza: dieci anni fa, proprio in questi giorni, i cittadini di Scanzano Jonico scatenavano una rivolta contro la decisione di costruire nel loro Comune il famigerato deposito, che prevedeva l’edificazione di una struttura a settecento metri di profondità, in uno strato di salgemma impermeabile. La faccenda, oggi, non è proprio la stessa ma ci somiglia. Dieci anni dopo Scanzano, un luogo deputato a ospitare il deposito nazionale (e il parco tecnologico) ancora non esiste. A differenza di allora, però, non si tratterà di scavare il sottosuolo, ma di costruire una struttura di superficie che possa comunque resistere per duecento anni e che dovrà ospitare le scorie a bassa e media attività (in modo permanente), e per qualche decennio quelle ad alta attività, in attesa di trasferirle a un deposito europeo di profondità di cui, peraltro, ad oggi non c’è traccia. Ebbene, se si interpreta alla lettera il documento che i nuovi vertici della Sogin (il presidente Giuseppe Zollino e l’amministratore delegato Riccardo Casale) hanno depositato alla Camera qualche giorno fa, siamo già in ritardo.
I tempi
Secondo quelle stime serviranno almeno quattro anni per arrivare a una localizzazione condivisa del sito e all’«Autorizzazione unica». Si calcola poi un altro quadriennio per la progettazione esecutiva e la costruzione. Quello giudicato più delicato è il primo periodo, e se il buongiorno si vede dal mattino la strada sarà in salita: ai primi di novembre la Regione Emilia-Romagna ha giù approvato una risoluzione presentata dalla Lega che dice «no» all’installazione del deposito a Caorso, il sito della centrale (e del reattore noto come «Arturo») spenta nel 1987. Ma anche se tutto filasse liscio sarà difficile rispettare le scadenza. I programmi prevedono il rientro del materiale radioattivo da Sellafield (Inghilterra) a partire dal 2019, e dalla Francia (La Hague) dal 2020 al 2025. I contratti con gli inglesi, che risalgono ai tempi dell’Enel, sarebbero più flessibili, e pagando qualche salata penale consentirebbero di prendere tempo. Più difficile, a quanto pare, potrebbe essere «spostare» quelli con i francesi, sempre più preoccupati che la decisione tedesca di uscire dal nucleare possa moltiplicare in futuro le richieste di ritrattamento dei combustibili radioattivi. C’è poi qualche via alternativa: con gli inglesi, ad esempio, è stato sottoscritto un accordo («swap») in virtù del quale l’Italia eviterà il rientro di seimila metri cubi in cambio di mille metri cubi di residui ad alta attività. Meno volume (che si paga caro) a parità di radiazioni. Nel 2006 circa due tonnellate di uranio naturale e impoverito sono state addirittura cedute al Kazakhstan.
Va precisato che francesi e inglesi si riservano, dopo il riprocessamento di scorie e fanghi, di tenere per sé il plutonio e l’uranio ricavati, e ancora utilizzabili. Lo faranno sicuramente i primi, mentre i secondi ancora devono decidere il da farsi. La contabilità del combustibile è tenuta al grammo dall’Euratom, e una clausola nei contratti vincolerebbe quei materiali ad esclusivo uso civile. Secondo gli accordi in vigore, quindi, niente bombe con scorie italiane.
Uranio e plutonio
Ma qual è la situazione attuale dei rifiuti nazionali e lo stato dell’arte del «decommissioning»? La rimozione del combustibile dalle quattro centrali nucleari italiane (Latina, Garigliano, Trino e Caorso) e dagli altri impianti (Saluggia in provincia di Vercelli, Rotondella-Matera, Casaccia-Roma, Bosco Marengo-Alessandria) non è del tutto completa. Il combustibile di Latina (la prima entrata in esercizio nel 1963) già dai primi anni Novanta è a Sellafield, nella contea britannica di Cumbria. Il materiale della piacentina Caorso è stato trasferito in Francia tra il 2007 e il 2010. A Trino Vercellese, invece, il combustibile esaurito è in parte confinato nella piscina della centrale (39 elementi di uranio e 8 di mox, una miscela di uranio e plutonio). Quello del Garigliano è nel Regno Unito dal 1987, ma 63 elementi sono parcheggiati nel deposito Avogadro di Saluggia con destinazione Francia.
Saluggia, da parte sua, ha un poco invidiabile primato: l’impianto Eurex (dove si riprocessava l’uranio) è quello al quale viene ancora accreditata la maggiore attività, all’incirca il 70% della radioattività registrata in tutti i siti italiani. All’Itrec di Rotondella stazionano ancora 64 elementi di combustibile del ciclo uranio-torio, ritenuto molto tossico e proveniente dal reattore americano di Elk River. Eredità di un accordo con gli Usa degli anni ‘70 e che tra mille difficoltà sta lentamente riprendendo la via del rientro. Buone notizie per Bosco Marengo, che secondo la Sogin dovrebbe essere il primo impianto a ritornare al «prato verde». Alla fine, per allontanare definitivamente dal territorio italiano i residui nucleari mancherebbero ancora — «no-Tav» permettendo — tre trasporti da Saluggia e due da Trino.
Quanto costerà tutto questo movimento? La Sogin (che con Zollino e Casale si è impegnata alla «massima trasparenza») fino a tutto il 2012 ha speso 2,1 miliardi di euro. Per arrivare al «prato verde» conta di aver bisogno di altri 3,8 miliardi. In questo conteggio non sono compresi deposito e parco tecnologico, altri 700 milioni-1 miliardo.
La Sogin costa agli italiani (in bolletta) circa 220-230 milioni l’anno. Ma la scommessa è alta: nei prossimi anni il mercato mondiale del «decommissioning» potrebbe creare un giro d’affari di 600 miliardi. Prendendone solo l’1% il conto sarebbe già in pareggio.
Stefano Agnoli
@stefanoagnoli