Enrico Franceschini, la Repubblica 20/11/2013, 20 novembre 2013
AI CONFINI DELLA NOTIZIA
Una battaglia per difendere libertà e democrazia oppure un favore ai terroristi che ora staranno più attenti a come comunicano tra di loro? Le rivelazioni di Edward Snowden, la “talpa” della National Security Agency americana, sulle intercettazioni di massa di email e telefonate in tutto il mondo, spesso con la collaborazione dei servizi segreti britannici, suscitano opposte reazioni. I governi di Washington e di Londra accusano Snowden, e i giornali che pubblicano i suoi documenti, di “aiutare il nemico”, come hanno detto i capi dello spionaggio di Sua Maestà in una testimonianza senza precedenti in diretta tivù alla camera dei Comuni. Altri governi, a Berlino, a Parigi, a Brasilia, si infuriano, chiedono spiegazioni, minacciano rappresaglie. Il “Datagate”, com’è stato soprannominato, rivela l’esistenza di un Grande Fratello orwelliano che spia nelle nostre vite, controllando perfino il telefonino di Angela Merkel, oppure è soltanto una necessaria risposta delle nuove tecnologie digitali a quanto è sempre avvenuto in nome della sicurezza nazionale? Il “Reuters Institute for the Study of Journalism” dell’università di Oxford ha chiamato a discuterne Sylvie Kauffmann, direttore editoriale di Le Monde, John Micklethwait, direttore dell’Economist, Chris Patten, presidente della Bbc Trust, Michael Parks, ex direttore del Los Angeles Times, e Iain Mathewson, ex diplomatico del Foreign Office britannico. Tema: il giornalismo responsabile e la sicurezza nazionale nell’era di Big Data. «Tra libertà e sicurezza, dopo quello che è successo, tendo a privilegiare la libertà », è la conclusione a cui è giunto il direttore dell’Economist, condivisa dai più. Ecco una sintesi della discussione, moderata da John Lloyd, nel suo ruolo di direttore del Centro Studi sul Giornalismo di Oxford.
Mathewson: «Le spie spiano, ma lo fanno con l’approvazione e sotto il controllo dei loro governi. Nessuno che io conosca nei servizi segreti britannici aspira a trasformare il pianeta in una sorta di Germania Est digitalizzata dove tutti sanno tutto di tutti. E trovo ingenuo sostenere che un direttore di giornale sia in grado di giudicare se un materiale riservato può essere o meno pubblicato, senza mettere a rischio fonti e vite umane. Per me il Guardian, il New York Times, Le Monde e altri giornali hanno fatto male a pubblicare le rivelazioni di Snowden».
Parks: «Nella mia carriera di giornalista ho appreso un sacco di segreti e ne ho rivelato la maggior parte. Credo che i segreti siano pubblicabi-li, e che un direttore sappia farlo con la cautela necessaria. Certo, Google sa di me un sacco di cose e finora non me ne sono preoccupato troppo. Certo, la Cia spiava i leader sovietici durante la Guerra Fredda. Ma perché sorvegliare il cellulare della Merkel? Perché intercettare centinaia di milioni di comunicazioni? La mia impressione è che siamo di fronte a un sistema che ha perso ogni controllo: le spie non spiano più solo quello di cui hanno bisogno, ma tutto quello che possono».
Kauffmann: «Le spie hanno segreti, i giornalisti li rivelano: tutto qui. Ci sono dei limiti a quanto si può rivelare, ma facciamo due mestieri diversi e servono entrambi a una democrazia. Tutte le rivelazioni che Le Monde ha fatto in passato in Francia, dal caso Rainbow Warrior alle intercettazioni di Mitterrand a quelle di Sarkozy, hanno inizialmente suscitato critiche, ma sono poi risultate utili. Era giusto pubblicare le rivelazioni di Wikileaks e ora quelle di Snowden? Rispondo senza esitazione di sì. Anche per Wikileaks all’inizio ci hanno detto che avremmo messo in pericolo vite, compromesso operazioni anti-terrorismo, ma niente del genere è poi avvenuto, altrimenti ce lo avrebbero rinfacciato. E le dimensioni del Datagate sono tali da sollevare dei dubbi sulla sua legalità. Come minimo, ci hanno indotto ad aprire una discussione anche più ampia, su Big Data, l’enorme ammontare delle informazioni che sono controllate dai giganti del web».
Micklethwait: «Non è sempre facile tracciare un confine tra libertà e sicurezza. Dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, è stato dato generalmente più peso alla sicurezza. E nelle proteste di certi governi, come quello francese, per lo spionaggio americano, vedo un buon grado di ipocrisia: il vero motivo della rabbia era non essere riusciti a piazzare loro le cimici meglio degli americani. Ma oggi io comincio a dare più peso alla libertà. All’Economist abbiamo appena fatto una copertina su tutto ciò che Google sa di noi, sull’invasione della privacy consentita dal web. Quanto al programma di spionaggio elettronico americano, da quanto è emerso, mi sembra chiaro che non c’erano abbastanza controlli politici e ce ne dovrebbero essere molti di più per operazioni di questo genere. Peraltro, se un agente di basso grado come Snowden poteva disporre di così tante informazioni, significa che nel sistema c’è qualcosa che non va. Per conto mio, appoggio in pieno la decisione del Guardian e di altri giornali di pubblicare quei materiali».
Kauffmann: «Una cosa è certa: quei segreti erano conosciuti da quasi un milione di persone nell’intelligence americana. Prima o poi, qualcuno li avrebbe tirati fuori. Se non fosse stato Snowden, sarebbe stato un altro. Un grande giornale sta molto attento a come pubblica un materiale simile, ma se fosse finito in mano a qualche blog indipendente o a qualche altra fonte, sarebbe potuto uscire grezzo, così com’era, e allora sì il rischio di un danno alla sicurezza sarebbe stato maggiore».
Micklethwait: «Pubblicare o no? È come scegliere tra due mali: da un lato, il rischio di aiutare i terroristi a nascondersi meglio, di far loro sapere in che modo vengono spiati. Dall’altro, il rischio che la nostra società non sia più libera come vorremmo. Non esiste una risposta perfetta, è prendere o lasciare. Io credo però che i terroristi sapessero anche prima che lo spionaggio controlla telefonini ed email, e prendessero le loro precauzioni. Non si tratta di abolire questo tipo di spionaggio, ma di decidere insieme fino a che punto si può spingere, di distinguere tra il cellulare di un membro di Al Qaeda e quello della Merkel, e di creare un sistema di controlli adeguato. Trovare un ago in un pagliaio è complicato, sarebbe strano se lo Stato non provasse a farlo quando può farlo Google. Ma bisogna vigilare sugli abusi».
Kauffmann: «E non ci sono solo gli abusi commessi dallo spionaggio, dagli stati. Noi tutti viviamo in un mondo nuovo. Immaginate se un giorno andate a cercare lavoro e il vostro potenziale datore può sapere tutto di voi entrando sulla vostra pagina di Facebook. Vi piacerebbe? A me no. E penso che il Datagate ci farà riflettere anche su questo».
Patten: «A proposito della Merkel, non mi meraviglia che la Germania l’abbia presa così male. La Merkel è nata in Germania Orientale, sa cos’era la vita sotto la Stasi, giustamente sia lei che i suoi compatrioti sono particolarmente sensibili alle intercettazioni. E nel dibattito libertà/sicurezza, vorrei ricordare la lezione che noi britannici abbiamo appreso durante il conflitto in Irlanda del Nord: ogni volta che abbiamo ristretto la libertà in nome della sicurezza, abbiamo creato più sostegno alla violenza e ci siamo ritrovati meno sicuri di prima».
Parks: «La mia regola, come direttore di giornale, è che io non lavoro per difendere i servizi segreti, non lavoro per difendere il mio governo, lavoro per difendere il popolo americano. Questo è quello che deve fare un giornalista».