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 2013  novembre 20 Mercoledì calendario

JFK – [DALLAS LA CITTÀ DEL DOLORE VUOLE RIPULIRSI L’ANIMA]


I DISEGNI riempiono i muri del corridoio che porta all’ingresso del Sixth Floor Museum, la palazzina in mattoni rossi, da dove Lee Harvey Oswald ha sparato a John Fitzgerald Kennedy alle 12 e 30 del 22 novembre del 1963. Li hanno fatti i bambini delle scuole elementari e sono pieni di colori e di frasi così ingenue da sembrare vere, tipo: “Love never dies” con la faccia luminosa del presidente in mezzo ai ritagli di giornali dell’epoca. Sono uno dei tanti filoni del Dallas Love Project, l’opera collettiva che un gruppo di artisti ha messo in piedi per “ripulire l’anima” della città che da 50 anni vive oppressa dal senso di colpa, umiliata dall’accusa di aver favorito indirettamente la morte del presidente.

LE comunità passano attraverso momenti che le segnano per sempre, per noi fu quella mattina d’autunno. Ora è venuto il momento di uscire dalla vergogna: dobbiamo riscrivere la storia, un capitolo nuovo dove l’amore vince sull’odio» dice Charlotte, volontaria della prima ora. Adesso sta qui, guarda la lunga fila di turisti in coda per comprare il biglietto e sorride: «Noi non siamo quelli che ha raccontato Oliver Stone in Nixon, dove si vede un losco cubano e un ricco texano che avvertono Nixon delle loro intenzioni. O meglio, di certo non lo siamo più».
L’idea è della grafica Karren Blessen e in dodici mesi si è allargata come un flusso di autocoscienza ai confini dell’autodafé: concerti, proiezioni di documentari, convegni, dibattiti con presenze record, visite guidate sui luoghi della tragedia per le scuole. E tanta arte, trentamila opere ad invadere strade e palazzi. «Sono contento di quello che è successo quest’anno, finalmente ci siamo confrontati, abbiamo affrontato il nodo più importante per la nostra comunità. Certo non potevamo fare una seduta psicoanalitica ma sono fiero dei miei concittadini», spiega ai giornali locali Mike Rawlings, il sindaco democratico.
E’ lui che ha voluto una cerimonia solenne ma senza esagerazioni, per raccontare il pensiero e la lezione di Jfk più che la sua morte. Nella Dealey Plaza dove Elm Street fa una leggera semicurva e dove viene colpito il convoglio stanno montando il palco. Qui lo storico David McCullough leggerà i discorsi del presidente, nell’ora dell’attentato ci sarà un minuto di silenzio e poi suoneranno le campane.
La strada ha l’asfalto nuovo gettato di fresco, operai del comune grattano via le storiche X bianche che segnavano il posto esatto dalla vettura: «Normale manutenzione», spiega un portavoce. In realtà fa parte della strategia degli organizzatori preoccupati di allontanare ogni segno morboso che possa aizzare la fantasia dei complottisti. Nessuno ha mai saputo chi le avesse disegnate, ma per anni sono state lì a far battere il cuore di tenebra della città, quell’atmosfera cupa che un cronista del Dallas Times Herald chiamò “la notte dell’anima”. Quando arriva Kennedy i bianchi sono il 72%, ci sono ancora molte scuole segregazioniste, la classe dirigente è ultra conservatrice, non riconosce lo stato federale e detesta ancora di più questo presidente “comunista” che attacca il loro sistema di valori. Viene diffuso un volantino con scritto “Ricercato per tradimento”, con due foto tipo quelle segnaletiche e sotto il lungo elenco delle colpe: aver calpestato la Costituzione, messo in pericolo la sicurezza della nazione, mentito al popolo e via così. Sui muri appaiono slogan inquietanti: “Tutto ma non Kennedy”. Qui tre anni prima Lyndon Johnson e la moglie vengono accolti a sputi in faccia, e solo un mese prima dell’omicidio l’ambasciatore alle Nazioni Unite Adlai Stevenson si prende un cartello sulla testa.
C’è un bel libro, Dallas 1963, scritto da due docenti di giornalismo Bill Minutaglio e Steven Davis, che riassume così il clima: “Era il luogo più probabile al mondo dove potere sparare a JFK”. A soffiare sulla rabbia collettiva il deputato Bruce Alger, il sindaco di allora Earl Cabell, il reverendo battista W. A, Criswell, l’editore Ted Deale, il petroliere H. L. Hunt e l’ex generale Edwin Walker. Tutti urlano, inveiscono, minacciano in quella che gli autori chiamano una cacofonia di rabbia collettiva culminata con lo sparo. E in un commento sul New York Times, lo storico James McAuley la chiama “la città dell’odio”.
«Io non ero nata, ma anche oggi ogni volta che mia mamma rivede quelle immagini si mette a piangere. Lei e papà mi hanno parlato spesso di quel periodo, del gelo che li circondava, delle speranze che avevano in Kennedy, della disperazione dove il suo assassinio. Per questo quando ho saputo dell’iniziativa mi sono iscritta subito come volontaria»: Eva ha 22 anni, è afroamericana, va al college e strappa ore al basket per lavorare nel Dallas Love Project. Gli studenti, i giovani sono l’altro motore del cambiamento, nei campus e nelle varie istituzioni culturali si passa da un dibattito all’altro: ogni aspetto viene sviscerato, le conseguenze sulla comunità passate al microscopio. All’inizio di novembre al Dallas Institute of Humanities va in scena uno dei più seguiti, lo scrittore Lawrence Wright è tra i relatori. «La città ha lavorato molto su se stessa, ha fatto tanta strada per superare il senso di colpa: penso che adesso sia una comunità migliore, più serena e generosa. A volte mi chiedo cosa sarebbe stata Dallas senza questa tragedia, beh forse non avrebbe saputo crescere in questo modo».
Ora gli abitanti sono quasi sette milioni, i latinos sono il 42%, l’economia va e le tensioni sociali sono ridotte al minimo: «Siamo cambiati, per fortuna. E sono fiero che un piccolo contributo l’abbiamo dato anche noi con il nostro museo»: dice in queste giornate senza respiro Nicola Longford, direttore del Sixth Floor Museum. E l’ex deposito di libri, con la sua finestra al sesto piano è uno dei simboli del travaglio shakespeariano che qui agita le coscienze. Per anni il destino della palazzina è in bilico, i proprietari la abbandonano nel 1970, parte la proposta di abbatterlo: polvere sotto il tappeto, cancellare il simbolo del male per mettere fine agli incubi. Ma un gruppo di persone, guidate da Lindalyn Adams, si batte per farne invece un luogo della memoria e alla fine vince: «E pensare che quando lo elessero mi sentii quasi male per la rabbia: dove andremo a finire con questo giovanotto? Poi ho cambiato idea, soprattutto penso che se avessimo distrutto questo luogo sarebbe stato un errore gravissimo, avremmo rovinato la nostra reputazione», racconta in una lunga intervista al Dallas Morning News.
Adesso si gode l’assedio della gente. Tim viene dall’Illinois, ha un po’ più di settant’anni e una vita passata nell’esercito: «Certo che mi ricordo dov’ero, tutti se lo ricordano. Ero in una base in Giappone, ci svegliarono a notte fonda e gli ufficiali ci dissero quello che era successo. Era incredibile, non ci volevo credere poi ci misero in stato di massima allerta».
E’ la Guerra Fredda, il pericolo che il filo delle colpe arrivi sino a Cuba e da lì ad una guerra nucleare con l’Unione Sovietica: «Non sono mai stata un’appassionata di complotti e delle varie teorie sui misteri. A me interessa solo che le speranze dei miei genitori non siano finite quel giorno, che il posto dove vivo grazie a loro e anche a Kennedy sia migliore di cinquant’anni fa»: Eva se ne va quasi di corsa, ha un concerto da organizzare uno dei tanti fuochi spontanei che riscaldano il cuore di Dallas.
Fuori, su Elm Street, proprio come quella mattina, c’è un bel sole, solo un po’ di vento a muovere l’acqua della fontana davanti al monumento che ricorda l’agguato. Un signore con i capelli grigi sta sull’angolo, evita con gentilezza uno dei venditori ambulanti di “documenti originali” e dice al ragazzino che gli sta a fianco: «Vedi? Io ero là, proprio dove la strada inizia a salire».