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 2013  novembre 20 Mercoledì calendario

VERDI, FALSTAFF E IO UN CAPOLAVORO PER TRE OTTANTENNI


[Luca Ronconi]

«Guardate. Io sono ancora una piacente estate di San Martino», dice Sir John Falstaff «pavoneggiandosi» e diventando ridicolo nel suo non tener conto dell’età, della pinguedine, della gotta, dei tanti acciacchi che lo affliggono. «Non è solo la perdita della giovinezza ad affliggerlo, c’è anche quella dello status sociale. Un tempo aristocratico, ora si trova a doversi misurare con dei nuovi arricchiti, cafoni e dozzinali», dice Luca Ronconi. Quanto ad acciacchi, anche il nostro grande regista ha i suoi da curare, ma ha imparato a farlo con serena consapevolezza, perfino con ironia e senza rinunciare alla gioia più grande: stare in palcoscenico, veder nascere una nuova creatura.
Falstaff, diretto da Daniele Rustioni, protagonista Roberto De Candia, va in scena stasera al Teatro Petruzzelli. John, Giuseppe e Luca: Ronconi ha compiuto 80 anni a marzo, Verdi ne aveva altrettanti nel 1893 quando l’opera debuttò e Falstaff è senz’altro un loro coetaneo. E’ la terza volta che il regista affronta il congedo dal teatro musicale di Verdi. Da quanto si sta impegnando si capisce che questo nuovo allestimento è anche una sfida con se stesso: il primo incontro col Pancione, a Salisburgo, fu forse penalizzato dalla dimensione eccessiva del palcoscenico, mentre il secondo, a Firenze, non lo ha del tutto soddisfatto.
Maestro, come reagisce Falstaff alla perdita della giovinezza e dello status sociale?
«Con un senso dell’orgoglio della provocazione e della degradazione, specie nella prima scena del primo atto, quella appunto in cui si paragona ad un’estate di San Martino».
E quale il carattere principale di Alice e Meg, le due signore che lo gabbano?Non è difficile prendersi gioco di un anziano così ingenuo e narciso.
«Queste signore sono vendicative, irritate al pensiero di essere prescelte da Sir John, sono anche punitive. Si parla tanto di beffa, ma sembra molto più una vendetta. E sembra anche che le care signore ce l’abbiano in generale con gli uomini, perché nell’ultima scena il vero beffato non è Falstaff: contro quel povero vecchio ci si accanisce, mentre il vero beffato è Ford. Mi piace anche sottolineare come è cambiato il rapporto uomo-donna dai tempi di Verdi e Boito a quelli della nostra rappresentazione. Però, in scena non vedremo nessuna attualizzazione».
Dunque niente costumi anni 50 come invece scelse a Firenze. Anche il testo scritto per Verdi da Arrigo Boito rientra in quel genere dei libretti d’opera che lei ha spesso dichiarato di non riuscire proprio a digerire?
«Il libretto di Boito teatralmente è assai abile, ma certi toscanismi non sarò mai in grado di digerirli!».
E come va con la musica? Le dà sempre fastidio - quasi un ostacolo al suo progetto di regia - o ci è venuto a patti?
«Mi capita di dire cose che poi... non mi ricordo. Però voglio prendermi anche il diritto di cambiare idea».
Pronunciata da lei è un’ammissione importante. Con le scene di Tiziano Santi e i costumi di Maurizio Millenotti, in che epoca ci porta con questa regia? E dove ha scelto di ambientare lo spettacolo?
«Non c’è una ambientazione precisa, se per ambiente si intende un’epoca, un luogo. C’è piuttosto un’atmosfera dove le illusioni di Falstaff, e anche quelle di Annetta, la perfidia delle donne vendicative, la disperazione di Ford, possano trovarsi a loro agio. E magari nell’ultima scena per un momento si potrà supporre che si voglia veramente “fare la festa” al vecchio Falstaff».
L’ultima immagine è emblematica: una quercia rovesciata che scende dall’alto. E molto è affidato alla capacità dei cantanti di essere anche credibili attori: «E’ sempre in teatro, non si stanca mai di parlare, di lavorare con noi, di darci indicazioni per far vivere le sue idee di regia», dice Monica Bacelli, interprete del ruolo di Meg Page.
È sempre convinto che il principale merito storico dei registi sia quello di aver prolungato di 50 anni l’agonia del teatro d’opera?
«Più che mai. Ma non uso, e non usavo, il termine agonia in senso peggiorativo. L’agonia a volte è selettiva e questa selettività garantisce a ciò che veramente vale di rimanere».