Mario Baudino, La Stampa 20/11/2013, 20 novembre 2013
IL MAESTRO D’ORTA NELLA SCUOLA SGARRUPATA
«I miei insegnanti avevano la verga in mano (elementari) e nel cuore (medie e superiori), non ricordo nessuna affettuosità, nessun interesse per il bambino che ero allora», amava raccontare Marcello D’Orta, il maestro napoletano che, a sorpresa, nel 1990, pubblicò un libro di enorme successo riportando pari pari i temi in classe dei suoi alunni. Io speriamo che me la cavo arrivò, nella sua lunga vita editoriale, a due milioni di copie, e fu tradotto in tutto il mondo. Aveva dissacrato la scuola, un po’ come nella favola del Re nudo, andando molto oltre i disegni dell’autore - anzi collettore -, che voleva semplicemente rendere giustizia alla cultura popolare e innocente dei suoi ragazzi, quelli che frequentavano l’elementare di Arzano dove insegnò per quindici anni.
È morto ieri, precocemente, all’età di 60 anni. Era malato da tempo, e continuava a scrivere, per reagire. Stava lavorando a un libro su Gesù, ennesima puntata di una vasta produzione che seguiva spesso la falsariga sorridente del suo volume d’esordio. Io speriamo che me la cavo, però, resta qualcosa di unico, non solo per il successo di massa. Non rappresenta neppure una critica a una scuola lontana dalla società o forse dal «popolo»: è almeno in apparenza un libro di puro divertimento, dove gli aspetti critici sono impliciti. All’altezza degli Anni Novanta, i tempi erano maturi per cominciare a parlare, in un italiano fortissimamente dialettale, di come l’insegnamento veniva vissuto dai ragazzini, in una scuola (il termine ebbe un enorme successo, ed è entrato nel linguaggio comune) totalmente «sgarrupata». Conferma, in tema di dissacrazione, un proverbio napoletano: «A’ altare sgarrupato nun s’appicciano cannele». Ma se non si accendono candele, si può sempre provare con i lumini del parlare quotidiano.
«Io speriamo che me la Chievo», proclamava con indubbia grevità un sito romanista in occasione della recente partita della Roma con la squadra veronese: a riprova che col tempo tutto si involgarisce. Ma il libro del maestro D’Orta non era per nulla volgare, anche se come d’uso il manoscritto fu rifiutato da tutte le case editrici cui venne inviato. Lo pubblicò Mondadori, esclusa inizialmente dal maestro di Arzano, ma caldeggiata dalla moglie come ultima spiaggia. Il titolo veniva direttamente da un tema dove il piccolo alunno, come un Dante in calzoncini corti, aveva compiuto un energico sforzo di metafisica: «I buoni rideranno e i cattivi piangeranno, quelli del Purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono. I bambini del Limbo diventeranno farfalle. Io speriamo che me la cavo», e va detto che a prima lettura si addensò più di qualche sospetto sulla genuinità degli elaborati. Forse il simpatico maestro ci aveva messo del suo? Marcello D’Orta giurò che i temi erano riportati esattamente nella stesura originale, e c’è da credergli. Precisò anche che a scuola poi li discutevano, non era una specie di surrealismo popolare lasciato a se stesso ma comunque attività didattica.
Così il ricco Epulone della parabola evangelica «mangiava, mangiava, mangiava sempre. Come si svegliava due o tre cappuccini e un Kinder». E, nell’ultimo canto dell’Odissea, la vita famigliare trionfava sull’epica: «Alla fine lavarono il pavimento con una specie di ’arecchina, e se ne andarono a dormire». Io speriamo che me la cavo rappresentò il trionfo della quotidianità, del dialetto, della demistificazione involontaria e proprio per questo efficacissima. Ma anche, a suo modo, pesantemente inserita in un contesto dove non c’erano ignari e felici pastorelli in un’Arcadia subvesuviana: quando il libro balzò in vetta alle classifiche, e ne fu tratto un celebre film con Paolo Villaggio, regia di Lina Wertmüller, qualcuno, forse camorrista, si fece vivo con le famiglie degli allievi promossi a tanta notorietà, chiedendo il pizzo sui diritti d’autore.
Marcello D’Orta si consolava con le traduzioni: una volta ci elencò piuttosto compiaciuto, quelle di «sgarrupato»: un banale «kaputt in tedesco, roggyant in ungherese, gammel in olandese, ma bisogna dire che i francesi ci hanno lavorato di più. Sono arrivati a déglingouillée partendo dal latino deruptus, e scovando un’etimologia cui non avevo mai pensato». Quella esplosione di (melanconica) allegria che per un po’ ha contagiato tutto il mondo aveva però il suo lato oscuro, drammatico. Quando annunciò, nel 2000, di essere malato, Marcello D’Orta sapeva anche il nome del colpevole: «A chi devo dire grazie? Certamente alla camorra. I rifiuti si accumulano perché la camorra impedisce di raccoglierli, sabota gli impianti di raccolta, fa scioperare i netturbini, corrompe i funzionari dei controlli».