Salvatore Maria Righi, l’Unità 18/11/2013, 18 novembre 2013
CESARE BRUNO BENITO RUBINI
LA STORIA DI CESARE BRUNO BENITO RUBINI È COMINCIATA IL 2 NOVEMBRE 1923 E AI SUOI CENT’ANNI, PROBABILMENTE, AVREBBE CHIESTO LA SOLITA PARTITA A TENNIS CON OTTAVIO MISSONI. Oppure, qualche bracciata a stile libero sotto la costa dalmata. Il suo cuore, però, si è fermato un po’ prima dell’ennesima impresa, 1’8 febbraio di due anni fa, ma lo stesso si fa una terribile fatica a trovare le parole per raccontarlo. Due giornalisti che ne hanno viste tante, Oscar Eleni e Sergio Meda, ci hanno provato dedicandogli un volume che ha una promessa, più che un titolo: «Unforgettable», indimenticabile.
Il sottotitolo disegna un «guerriero dello sport», ma Rubini ha avuto una vita che è una Treccani intera. Da Trieste negli anni difficili tra le due guerre, con le ferite che si porta addosso chi ha vissuto con l’Italia sulla pelle e un confine troppo stretto, alla Milano del dopoguerra che pedalava e sognava, lontana, lontanissima da quella «da bere». Dallo sport come un «giuoco» per temprare il carattere e il corpo, in un’epoca in cui era ancora per pochi e per temerari studenti universitari, ad un mondo che fattura e fa business come qualsiasi altra umana attività, con l’innata attitudine a fare sghei sempre, anche quando ne giravano pochi e bisogna avere molta, molta fantasia, e altrettanta faccia tosta, per diventare ricchi. Il Principe, come era per tutti, su un ponte steso a cavallo di due, tre epoche. Un uomo nato per competere e per vincere, molto più che per partecipare. I numeri, da soli, fanno molto più che impressione: diventano irreali, non plausibili, davanti ai campioncini fragili e sponsorizzati di oggi. Non si trova nemmeno col lumicino un altro atleta italiano che sia stato nazionale e scudettato in due discipline diverse.
Lui che era nato davanti al mare e che nel mare tra Italia e Balcani ha imparato a stare a galla, non poteva non amare la pallanuoto con cui ha vinto sei titoli italiani, oltre a un oro e bronzo olimpici ed europei, con 84 partite in azzurro, la metà delle quali da capitano. E poi la pallacanestro, come la chiamavano ai tempi in cui ha cominciato, giocando per dieci anni, tra Trieste e Milano, 5 titoli italiani, una Coppa Campioni, due Coppe Coppe, poi 10 titoli da allenatore e, come dirigente azzurro, le avventure in altre Olimpiadi ed Europei. Poi è venuto il basket, anche a pelle diverso dalla pallacanestro, e lui un bel giorno ha detto «questa pallacanestro non mi appartiene più», perché uno che ha cominciato quando si giocava con canottiere pesanti due chili e palloni di cuoio stropicciato non lo cambiava niente e nessuno, figurati uno sport che e diventato da un po’ in Italia e più in generale in Europa la succursale della fabbrica di gadget e di schiacciate chiamata Nba. Aiuta meglio a capire la dimensione epocale anche il posto nella Hall of Fame del basket e della pallanuoto, tra gli altri sacerdoti dei rispetti tempi, anche se il Principe non era uno che perdeva molto tempo a predicare: una volta, a Pesaro, è uscito dal campo, si è arrampicato in tribuna e con un pugno ha spaccato il naso ad uno che gli aveva urlato «s’ciavo». Non si scherza, tuttora, di queste cose con chi è nato ed è vissuto a Trieste, e ha vissuto sulla propria pelle il senso di tenere i piedi a cavallo della storia. «Non resisto mai quando qualcuno mi chiama così, piombo sul pubblico e scaravento giù chi lo ha detto. E umiliante, perché mia madre fin da piccolo mi dice sempre: noi siamo italiani due volte, dopo la Prima Guerra abbiamo scelto noi di lasciare la Dalmazia. E quando sento Fratelli d’Italia mi commuovo sempre, altro che s’ciavo».
Lo ha raccontato lui stesso, in una memorabile chiacchierata con Luigi Bolognini pubblicata da Limina nel 2003 («Gli eroi son tutti giovani e belli»), parlando di Tito che stava da una parte, del «nazionalismo italiano di Vola colomba», quando scelse ancora giovane di fare il pendolare tra San Giusto e la Madonnina. Uno che si e ribattezzato «carattere forte», ironizzando sui suoi ingombranti patronimici: «A parte che sono di sinistra, fascista smetto di esserlo vedendo l’arroganza e la prepotenza di italiani e tedeschi durante l’occupazione della mia Trieste, vedendo la Risiera di San Sabba». Sul campo da pallacanestro, che ai suoi tempi almeno all’inizio era spesso cemento riverniciato alla meglio e tabelloni duri come il marmo, l’immagine di un allenatore che non aveva ceno bisogno della lavagnetta per farsi ascoltare dai giocatori. «Nei minuti decisivi devi essere coraggioso, spregiudicato, la voglia di vincere ti spingere a obbligare i giocatori a battersi anche se non stanno in piedi. Tutti resistevano al dolore, tutti quelli di un certo periodo, poi le cose sono cambiate, qualcuno dice per fortuna, ma è lo spirito della battaglia che è venuto a mancare. Non avevo pietà dei miei giocatori, gli allenamenti erano certo più duri di molte partite del campionato. Volevo eroi, lo ammetto e molti lo sono stati. Allenare senza conoscere gli uomini, i tuoi e gli avversari, non è possibile».
Questo il Dna dell’uomo che, molto prima di diventare una leggenda, ha detto «capisco poco di pallacanestro», perché l’importante appunto sono gli uomini, quello che poi è diventato il fattore umano e che per lui, spesso, voleva dire andare in campo nonostante ginocchia e caviglie rotte. Uno in anticipo anni luce sul motto quando il gioco si fa duro eccetera eccetera, e infatti «duri banchi» era il suo urlo di battaglia in campo, riprendendo un antico modo di incitare i rematori sulle galee veneziane. Non è mai stato però Cincinnato, nonostante le cose cambiate intorno a lui, come i canestri, come Trieste e come tutto il mondo. Un negozio di articoli, «uomo immagine per Asics, Nike, Converse». Per dare un senso a tutto, per chiudere anche questo cerchio, ripensando all’oro olimpico del ‘48 nella pallanuoto: «Da Londra tornano anche ricchi, nascondendo tremila metri di seta gommata, tremila fazzoletti di seta presi a Como e bottiglie di liquore Strega (48 cartoni) nelle valigie e poi rivendendo il tutto là». Anche questo era il Principe. O Cesare Bruto Benito Rubini, se preferite.