Paola Mirenda, Left 16/11/2013, 16 novembre 2013
FUORI DALLA GABBIA
«Se non la pianti finisci al Mammagialla». Nel linguaggio detentivo la frase e l’equivalente dell’antico e infantile «finiscila o chiamo l’uomo nero»: fantasmi sconosciuti che hanno il potere di terrorizzare. L’istituto penitenziario di Viterbo gode di cattiva fama e lo sa. Il cartello stradale che lo indica fatica a farsi vedere lungo la via Teverina. Una piccola svolta a sinistra, una lunga strada di campagna e poi le alte mura di cemento armato che annunciano il carcere. Una struttura simile a tante altre: pannelli prefabbricati, basse palazzine all’ingresso, edifici più alti che ospitano i detenuti. Settecento “ristretti”, come li chiama il gergo carcerario, in un posto che ha spazio per poco più della metà. I detenuti sembrano una presenza invisibile ai visitatori. Eppure ci sono. Definitivi, appellanti, in sovrannumero, in regime di 41 bis, il regime protetto, stranieri, tossicodipendenti, psichiatrici. La neodirettrice Teresa Mascolo vorrebbe che la fama di Mammagialla cambiasse, ma i sindacati l’accusano di voler gestire il carcere con parole gentili anziché col pugno duro. «Ci mandano gente che avrebbe bisogno dell’Opg e poi ci dicono che dobbiamo intervenire a mani nude». Parla così Gino Federici, sindacalista della Ggl Funzione pubblica e agente penitenziario. Quella frase – «a mani nude» – è contenuta nel comunicato che tutte le sigle sindacali del carcere, dal Sappe alla Uil, hanno sottoscritto a luglio. «In due decenni non c’è mai stato un tale senso di impunità tra i detenuti», scrivono.
Finito di costruire nel 1993 dalla Grassetto, ditta dell’impero Ligresti, il carcere di Mammagialla viene consegnato che già non funziona; la prima interpellanza parlamentare – alla Camera – è di Famiano Crucianelli. Appena dieci mesi dopo l’inaugurazione il deputato chiede conto di un penitenziario che «per errore di progettazione e di realizzazione è già compromesso in alcuni settori fondamentali della struttura», come per esempio per l’acqua che «filtra dalle docce cadendo a pioggia nei locali sottostanti». Mancano, dice Crucianelli, spazi e luoghi per venire incontro alle esigenze rieducative del carcere. Manca, dall’inizio, il personale necessario. E la carenza di organico è anche oggi la ragione per rifiutare ogni ipotesi di cambiamento nel sistema. «Che vuole che ci facciamo con 350 guardie per 650 detenuti?», dice Federici. Non sono poche, ma il carcere è nato in anni in cui la mentalità era quella di una sorveglianza a vista, di una marcatura a uomo. Le scale strette, i portoni blindati ogni dieci metri, le celle a doppia porta, una con le sbarre e una in ferro pieno, lo spioncino a lato sul corridoio per il bugigattolo del bagno, quello in cui i detenuti tengono pure le pentole e le scorte della spesa. Sulle dimensioni delle celle non c’è accordo, si litiga sui centimetri: sono pensate per una persona, ci stanno in due ma solo perché un terzo letto non ci entra. «Sono tre metri per quattro», dice la direttrice Mascolo, finita qua da Sassari nell’inverno del 2011. Tre per quattro cioè dodici, un metro in più della cura fissata dalla Corte europea per evitare un comportamento “disumano e degradante”. Ma nemmeno le celle più spoglie sembrano grandi, due persone si muovono a fatica tra i letti a castello e le improvvisate sedie, un ginocchio incastrato nel materasso e il gomito che urta lo stipite di fronte. Starci per venti ore al giorno è impossibile, ma le celle si aprono solo il pomeriggio per il passeggio o la socialità nelle aree comuni, cioè la sala al piano dove c’è un biliardino, una scatola del risiko e qualche tavolo per una partita a carte.
Troppo poco, dice Mascolo. «Servono più educatori, più psicologi, più medici». Nell’ordine di servizio che ha fatto sbottare le guardie penitenziarie scriveva che serve «una relazione più umana» tra personale e detenuti. Le hanno risposto che non si governa con «un fiorellino», pesante allusione non si sa se involontaria. Di sicuro c’è che il carcere di Viterbo è considerato un carcere punitivo, che spaventa tutti i detenuti. «Qui ci mandano i più esagitati perché sanno che sappiamo mantenere l’ordine, lo abbiamo sempre fatto», spiega Federici. «Non diciamo che vogliamo l’autorizzazione a fare chissà che, ma vogliamo poterci difendere se ci aggrediscono. Come lo calmi uno che dà di matto? Gli scrivi?». Carta e penna, aveva detto la direttrice. Ci vuole un’autorizzazione scritta per ogni misura coercitiva. Giovane (48 anni), Mascolo vuole vedere applicate le nuove direttive, il pieno rispetto della legge del 1975, la Convenzione europea sui diritti umani, le raccomandazioni Ue, la Costituzione, «Il carcere è cambiato, lo devono capire tutti», spiega Mauro Palma, presidente della Commissione carceri del ministero di Giustizia. «So che ci sono resistenze, ci sono abitudini a misure di un certo tipo. Ma tra gli agenti ci sono anche ragazzi giovani e formati, non possono invocare come scusa la mancanza di preparazione». Non è quella l’unica carenza. Anche al Mammagialla, come in altre carceri, i diritti dei detenuti sono sconosciuti. Gli agenti non sanno che le celle devono restare aperte più ore sia la mattina che il pomeriggio, che le attività formative devono svolgersi nell’arco dell’intera giornata, mentre invece nelle aule ci sono pochi alunni, e sono sempre gli stessi. Non sanno alcuni non vogliono sapere che le cadute dalle scale non vanno più di moda. «Il Mammagialla registrava una forte incidenza di incidenti casuali», ricorda ancora Palma. «Non so quale sia la situazione ora, spero sia migliorata». Per ora gli atti di autolesionismo restano alti: 114 nel 2012 anno, 97 al 31 ottobre di quest’anno. E i reclusi conoscono poco i loro diritti. «Ci lamentiamo troppo», dice il bibliotecario, 73 anni e una condanna per sequestro e omicidio, «mica possiamo pretendere che chi sta male in 20 minuti venga soccorso, se caschi per strada magari aspetti pure mezz’ora». Invece dovrebbero pretenderlo, perché sono sotto tutela dello Stato, e uno Stato ha più doveri di un passante qualsiasi. Però le cose cambiano. «Se mi dicono che questa è la legge, ok, farò di tutto per rispettarla», dice Federici. «Dateci un ordine di servizio, diteci che dobbiamo fare». È tempo di cambiare.