Wladimiro Settimelli, l’Unità 19/11/2013, 19 novembre 2013
STRAGE CANCELLATA
GIÙ, NEL BUIO ANGOSCIOSO D11200 METRI DI PROFONDITÀ, I RESTI DELLA GRANDE NAVE DA GUERRA SONO STATI RITROVATI, molti mesi or sono, da un piccolo robot chiamato «Pluto». Ritrovati dopo settanta anni. E proprio nel mare dell’Asinara dove la corazzata «Roma», colpita a morte dagli aerei tedeschi, si era spezzata in due sotto l’esplosione di alcune bombe radioguidate, trascinando nei gorghi 1.391 marinai, ufficiali e l’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, comandante delle forze navali da battaglia italiane.
Un disastro immane, una strage e l’ennesima vendetta nazista contro gli italiani «traditori badogliani» che dovevano essere comunque «puniti». Poi, come si sa, verranno le stragi dei soldati a Cefalonia, quelle in Grecia, in Jugoslavia e in Albania.
La «Roma», nave ammiraglia della flotta italiana, colò a picco proprio nei giorni della proclamazione dell’armistizio con gli alleati ed esattamente il 9 settembre 1943, mentre Vittorio Emanuele III, Badoglio e tutto lo Stato Maggiore, si affollavano, in fuga, sulle banchine di Ortona a Mare per imbarcarsi su nave «Baionetta», diretta a Brindisi, già saldamente in mano agli alleati. Insomma, la grande fuga del Re, della regina, del principe Umberto e tanti generali, mentre nella Capitale si combatteva ancora a Porta San Paolo.
Non so perché, ma la storia della corazzata «Roma» e di tutte le altre navi della flotta italiana salpate da La Spezia, su ordine di «Supermarina», per consegnarsi agli alleati, come previsto dagli accordi di Cassibile, negli anni è sempre stata raccontata male, tra incertezze e molte contraddizioni. Non solo: le celebrazioni in ricordo di quei ragazzi spazzati via in modo terribile per colpa della folle guerra mussoliniana, si sono sempre svolte un po’ in tono minore, sia a livello di governo, ma anche di giornali e televisione. Come se quei poveri morti fossero figli di un Dio minore. La Marina non c’entra perché si è impegnata davvero a fondo nelle ricerche della nave «Roma», con l’ingegner Guido Gay e il suo robot. Lo stesso che il 9 settembre scorso, nel Golfo dell’Asinara, ha posto, nei pressi di uno dei grandi cannoni della corazzata, a 1200 metri di profondità, una targa ricordo in marmo. Ed è stata di nuovo una impresa notevole. La targa era stata consegnata a Gay dal Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Giuseppe de Giorgi e dall’ammiraglio Gualtiero Maltesi.
COLPITA E AFFONDATA
II padre del robot «Pluto», l’ingegner Gay, a sua volta, era stato già insignito, nel giugno scorso, della medaglia d’argento al merito, proprio per aver ritrovato la grande nave in fondo al mare. Altre celebrazioni si erano svolte, nell’anniversario della tragedia, a Sanremo, a Ischia, a Brindisi e in altre basi della Marina militare.
Ma vediamola più da vicino la storia della «Roma» e del suo affondamento. Ovviamente, bisogna rifarsi ai racconti dei superstiti, pubblicati in diversi libri. Quello più autentico e drammatico è stato scritto dall’allora guardiamarina Arturo Catalano Gonzaga di Girella, per l’editore Mursia, pubblicato nel 1996. Il titolo è una presa di posizione netta e chiara. Eccolo: Per l’onore dei Savoia – 1943-1944 da un superstite della corazzata Roma.
La corazzata «Roma» era stata progettata dal generale Pugliese e costruita dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico. Era larga 32 metri e lunga 240 e pesava 44 mila tonnellate. Era stata consegnata alla Marina il 14 giugno del 1942 e tutti la consideravano il «gioiello» della flotta e la nave più moderna a disposizione per la guerra in alto mare. Purtroppo rimase in servizio soltanto quindici mesi.
Nella confusione generale, a La Spezia, l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante di tutte le unità da guerra italiane, aveva parlato agli ufficiali e alle ore 22 dell’8 settembre aveva annunciato l’armistizio. Per la grande nave, tutto cominciò alle ore 3 del 9 settembre, proprio mentre gli alleati sbarcavano a Salerno.
Secondo gli accordi di resa, l’interà flotta doveva dirigersi verso Malta per consegnarsi agli alleati. La Maddalena (gli italiani si stavano dirigendo in quel porto), infatti, era già occupata dai tedeschi. Tutte le navi, obbedendo agli ordini arrivati dalla Capitale, presero dunque il largo. C’erano la «Roma», altre due corazzate, un folto gruppo di incrociatori e una decina di cacciatorpediniere. Il convoglio era davvero gigantesco e le navi procedevano a 22 nodi, in una notte di mare calmo e con la luna. In quel momento si trovavano ad una ventina di chilometri dalle coste occidentali della Corsica.
Intanto a La Spezia, all’alba, l’ammiraglio tedesco Meendsen Bohiken, aveva avvertito Berlino che la flotta italiana era partita per consegnarsi al nemico. Dalla capitale tedesca risposero che avrebbero immediatamente preparato la «spedizione punitiva 1943», così la battezzarono.
La flotta, intanto, a mezzogiorno del 9 settembre, era in vista delle Bocche di Bonifacio, ma poi aveva deviato verso l’Asinara. A Berlino, comunque, non avevano perso tempo, ed era subito partito l’ordine di colpire le navi italiane. Quindici bimotori tedeschi si erano allora levati in volo dalla base di Istres, in Francia, e dopo un’ora avevano raggiunto le navi italiane cominciando subito a sganciare bombe. Erano le terribili Fx 1400 radiocomandate, del peso di 1400 chili. Di quelle, per intenderci, che non potevano in alcun modo mancare l’obiettivo.
Alle 15,45 la «Roma» era stata colpita in pieno. Subito dopo, un’altra bomba, era penetrata nel deposito delle munizioni della corazzata ammiraglia, provocando una strage: il grande torrione di comando era finito in mille pezzi e ovunque erano scoppiarti grandi incendi. Centinaia di marinai erano stati colpiti, uccisi o feriti in modo orribile. Il racconto di Arturo Catalano Gonzaga di Girella, nel libro Per Fortore dei Savoia, non risparmia dettagli terrificanti. Molti suoi amici e colleghi, ricorda con commozione e dolore, correvano sui ponti perdendo brandelli di pelle. Altri senza braccia tentavano di gettarsi in mare, altri ancora, con ustioni devastanti, per pura pietà e per tentare di alleviare il dolore, venivano cosparsi con «qualcosa di grasso» e cioè con semplice brillantina perché non c’era di meglio. Un altro ufficiale moribondo urlava, disperato, il nome della moglie in continuazione e poi aveva aggiunto: «Noi abbiamo distrutto l’Italia, tocca a voi ragazzi ricostruirla» e di colpo si era azzittito.
Intanto, tra quelli che erano riusciti a gettarsi in mare e ad aggrapparsi alle zattere di soccorso ormai stracariche, si stavano scatenando vere e proprie battaglie a colpi di remi per non far salire altri superstiti, con il rischio che le zattere si rovesciassero. In quell’inferno di dolore e di terrore, gli aerei tedeschi continuavano a bombardare e mitragliare.
Alle 16,12, la «Roma» si era girata su un fianco capovolgendosi e spezzandosi in due tronconi. Poi, il grande tuffo nelle profondità marine, trascinando giù morti, feriti e chi ancora correva disperato sui ponti in cerca di scampo.
Per tanti uomini e per tante persone in divisa, una strage terribile. E per i superstiti ammutoliti che cercavano di tenersi a galla, un dolore immane e l’angoscia di non farcela. Dal resto della flotta erano partiti subito i soccorsi, ma altre navi erano già state colpite e, in quel tratto di mare, ormai, non c’era che il caos.
Molte di quelle navi raggiungeranno poi Malta e si consegneranno agli alleati. Altre, si rifugeranno alle Baleari cariche di feriti. Un paio di ‘ comandanti, nel porto spagnolo di Mahòn, si autoaffonderanno per non arrendersi.