Rossella Battisti, l’Unità 19/11/2013, 19 novembre 2013
IL MIO DIARIO D’ATTORE
[Gigi Proietti]
A 73 ANNI COMPIUTI – IL DUE NOVEMBRE SCORSO – GIGI PROIETTI HA DATO ALLA LUCE UN’AUTOBIOGRAFIA, Tutto sommato qualcosa mi ricordo (Rizzoli, pagine 247 euro 19,50). «Per carità, niente bilanci – precisa subito –, per questo ho resistito a lungo prima di scriverla. Semmai un’altra tappa della mia carriera». Guidato dalla voglia di riuscire a far sentire «il mio modo di raccontare a chi legge», ne ha cavato fuori una sorta di mappa sentimentale, un diario di affetti – per la famiglia d’origine, per un mestiere, quello d’attore, non intuito subito (prevaleva la passione per le serate da cantante con il gruppo), per Sagitta, la compagna con la quale sta da più di quarant’anni, per gli amici e per i colleghi con cui ha diviso lunghi tratti di strada (Roberto Lerici) o brevi (Carmelo Bene) e per la Roma vissuta in più luoghi, nato vicino a via Giulia, ragazzino al Tufello appena edificato, adolescente nel quartiere Appio al liceo Augusto, prima convivenza a Campo de’ Fiori, primo teatrino off (il 101) a Prati con Antonio Calenda, Piera degli Esposti, Franco Nonnis e altri. Tempi – ricorda Gigi – «in cui sulla scena eravamo in cinque con due spettatori in una platea da 101 posti».
Il tono è affettuoso, inseguendo quella leggerezza che «Fellini diceva irraggiungibile». C’è l’incontro con Eduardo, il rimpianto per lo Shakespeare mancato, l’Otello, con Vittorio Gassman. Le rimembranze di come è nato il suo spettacolo più amato e più incisivo, A me gli occhi, please, buttato in pasto a platee oceaniche e ancora avide di repliche dopo quasi quarant’anni. L’esperienza «scippata» del Brancaccio, l’avventura del Silvano Toti Globe Theatre ancora in piedi...
Qual è la motivazione che più l’ha spinta a scrivere queste memorie?
«Si parla poco di quel periodo tra il dopoguerra e gli anni 60 del boom, ma è proprio in quel momento che si è ricostituito un popolo. Da lì cominciò l’edilizia popolare delle borgate così come la speculazione edilizia, secondo un percorso a due binari che l’Italia ha seguito fin da allora. Il mio tentativo è raccontare piccoli aneddoti di quel periodo per far ricordare un clima o farlo immagina a chi non c’era. Il presente, come dico nel libro, non riesco a conoscerlo, è bene allora conoscere meglio il passato per desumerne qualcosa per l’oggi. Naturalmente gli stili del racconto cambiano, a seconda se parlo della vita in periferia o di quando recitavo con Carmelo Bene».
L’unità ha lanciato da qualche mese un appello per un canale Rai dedicato allo spettacolo dal vivo. Lei che è stato tra i protagonisti di una stagione felice di recitazione in tv – ai tempi, per dire, del «Circolo Pickwick» sceneggiato da Ugo Gregoretti – cosa ne pensa e cosa vedrebbe bene sul piccolo schermo di oggi?
«Sono anni che predico per fare una cosa del genere. Ma sconsiglierei allestimenti dal vivo ripresi dal teatro, semmai un programma alla “tratto da..”. E poi occorrerebbe stare attenti a non andare su una spettacolarità troppo di élite. In fondo, stai entrando dentro le case. A meno che, certo, si tratti di un canale tematico dove te ne freghi dell’audience».
Attore d’avanguardia e di quella tosta – Carmelo Bene, Carlo Quartucci – ai suoi esordi, oggi c’è qualcuno degli «sperimentali» che le piace?
«Pippo Delbono, mentre alcuni mi sembra ripetano cifre estetiche degli anni Settanta. Forse neanche lo sanno; in quell’area è facile darla a bere, basta un po’ di bizzarria..»
Lei sostiene che la recitazione s’impara ma non si insegna. Ma cosa pensa dell’essere attore oggi e dell’uso del microfono che sta mettendo da parte la tecnica dell’emissione della voce, permettendo di far salire in scena quello che si potrebbe definire l’«attore minimo»?
«Le dirò, oggi c’è molta gente interessante che una ventina di anni fa non c’era e ragazzi che prendono molto sul serio questo mestiere, mentre quando aprii il mio primo laboratorio teatrale c’era chi veniva per diventare un comico in tv. Adesso, però, sarei severo perché serve ciò che allora non serviva: una disciplina, un rispetto per le cose che si fanno, per gli altri. L’etica della professione, insomma. Fare l’attore è prima di tutto un mestiere, se uno è anche artista ben venga, ma non è una cosa fondamentale. Quanto al microfono, confesso: un aiutino non guasta, soprattutto alla mia età e quando devi affrontare teatri di tremila posti...»
La prossima «curiosità» da realizzare?
«Sono sempre stato un amante del teatro povero, ma oggi sono affascinato dalle possibilità che concedono certi effetti tecnologici. Mi piacerebbe provarci».
Quella volta con Eduardo
The Wedding, il film con Robert Altman e Vittorie De Sica: «Altman ci disse di improvvisare (...) Diedero il ciak e Vittorio, andando a ruota libera, sicuro che poi ci saremmo doppiati, mi disse: “Angelina come sta?”. “E’ incinta” gli risposi senza fare une piega, forte di una certa esperienza da improvvisatore. Lui allora colse la palla al balzo e alzò il tiro “Sempre a scopa’, eh?”, accompagnando la battuti con il classico gesto. Iniziò così un dialogo volgarissimo, nel quale ognuno tentava di far ridere l’altro. Altman, che non aveva capito una parola, ma che aveva scrutato le intonazioni e i movimenti, decise che la scena era perfetta così com’era venuta e che non c’era neanche bisogno di doppiarla. Così nell’edizione originale del film è ancora possibile sentire me e Vittorio pazzeggiare in scena».
A pranzo da Eduardo per i suoi 80 anni «Il Tenda oramai era la nostra casa, tanto che ci organizzammo i festeggiamenti per gli ottant’anni di Eduardo (...) Andai anche a casa sua per decidere cosa avrei recitato. Lui mi accolse, come al solito, con estrema gentilezza. Disse: “Diamoci del tu”. Ovviamente evitai i pronomi per tutto il tempo. Era in vestaglia e mi fece accomodare in sala da pranzo. Aveva fatto preparare degli spaghetti. Poi consigliò. “Mangiamo qualche cosa insieme”. Poi licenziò la domestica e arrotolando la prima forchettata, propose: “Pecché nun fai il finale de La grande magia? Era una sua commedia del 1948, una delle sue opere più complesse e nel finale c’è un monologo molto difficile. Io masticai e deglutii senza mostrare grande entusiasmo ma Eduardo credette che La grande magia non mi piacesse. Mi guardò in silenzio e, proprio come in Natale in casa Cupiello, gli sentii dire: “Nun te piace!”. Arrossii e subito tentai di difendermi: “Come no, ci mancherebbe..” “Nun te piace” incalzò lui e fu distratto da una telefonata».
Da «Tutto sommato qualcosa mi ricordo»
di Gigi Proietti, edito da Rizzoli