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 2013  novembre 19 Martedì calendario

IL SOCIALISMO SI È AFFLOSCIATO


[Mario Adinolfi]

«Il partito bocciofila, il partito pesante che volevano i Pier Luigi Bersani, i Massimo D’Alema, i Gianni Cuperlo, è finito». Il grande pregio di Mario Adinolfi, 42 anni, romano, giornalista e blogger, deputato Pd per uno scampolo della scorsa legislatura, è di certo la schiettezza. Adinolfi non ci gira intorno, è diretto, spesso tranchant. Non bluffa come talvota fa sul tavolo verde, cui si siede come pokerista di livello internazionale. Un gioco che ama, ha scritto una volta, perché lì «non conta di chi sei figlio, conta come sai giocare la partita».
E nel Pd, Adinolfi era un po’ figlio di nessuno: renziano spurio era assai inviso agli ex-diessini anche perché non aveva mai risparmiato loro sonori calci negli stinchi, fino a fare una cagnara epica perché l’ex-sindaco di Civitavecchia (Rm), Pietro Tidei, si dimettesse dalla Camera, dove era divenuto incompatibile per la nuova legge sui doppi incarichi e dove gli «rubava» il posto come primo dei non eletti.
Domanda. Addio alla «ditta» bersaniana, dunque.
Risposta. Hanno votato sì e no 300mila persone, le convenzioni provinciali sono andate semideserte, il dato vero è la marginalizzazione culturale della sinistra in Italia.
D. La mette così?
R. Ma guardi che è successo in un anno e poco più. L’anno scorso io ero uno dei 12, dico 12 parlamentari che sostenevano alle primarie Matteo Renzi su 400 circa. Alle prossima primarie democrat, quelle dell’8 dicembre, lo sosterranno in tantissimi. E si sarà compiuto un arretramento enorme di quell’area.
D. Che sta succedendo, secondo lei?
R. È il diagramma del socialismo europeo. Vengo da un soggiorno in Francia dove la disistima per il governo François Hollande, che non ha saputo che tassare, è al culmine. E vogliamo dimenticarci Zapatero?
D. Non sia mai..
R. Ecco. Era il dio del progressismo: non hanno potuto neppure candidarlo perché, se no, perdevano voti. Si è votato da poco in Germania, dove la mitica Spd s’è fermata al 20%, doppiata dalla Merkel.
D. Un vento europeo?
R. In Europa e in Italia abbiamo strati della popolazione che realizzano di non aver mai avuto nulla di buono dalla sinistra tradizionale, e che con un colpo d’anca, si direbbe a judo, ribaltano.
D. Emerge un’altra Italia...
R. Un’Italia mediana, fatta dai molti nati dopo il 1970, che più di altri hanno la consapevolezza di quanto la sinistra li abbia fregati e che ora hanno peròla forza di esprimere una leadership.
D. E li frega ancora?
R. Certo. Vuole un esempio? Spendono miliardi per rivalutare le pensioni fino a 3mila euro, quando i disoccupati fra i giovani sono al 40%. E sa perché lo fanno?
D. Credo di immaginarlo ma lo dica lei...
R. Perché i 17 milioni di pensionati votato tutti, mentre fra i 29 milioni di Italiani nati dopo il 1970, votano in meno. Ma insomma, basti pensare alla vicenda esodati, il totem di una certa sinistra...
D. Adinolfi, mica vorrà parlar male degli esodati?
R. No, ma vorrei che si scrivesse che questo governo e il precedente hanno già investito complessivamente 10 miliardi su questo problema e solo uno sulla disoccupazione giovanile. È chiaro che una situazione come questa non regge più.
D. Un rivolta generazionale...
R. Lo sanno anche a destra, dove avanzano i Raffaele Fitto, gli Angelino Alfano. Hanno già deciso, al prossimo giro andranno avanti questi e i falchetti.
D. Il tema generazionale, che lei evoca, ci permette di tornare al Pd. Perché si tratta propriamente della bandiera che Renzi agitava un anno fa. Oggi meno, non le pare?
R. Infatti io sono preoccupato di questo suo riposizionamento, che forse si può simboleggiare nell’idea di far entrare il Pd nel Pse, altra rotellina del disastroso ingranaggio europe. Quando ho sentito dirglielo, mi sono cascate le braccia.
D. Oltretutto con Renzi vi conoscete da una vita...
R. Lui era segretario del Partito popolare a Firenze, a soli 24 anni, quando io ero presidente nazionale dei giovani a 28. Siamo figli della stessa storia.
D. E allora, secondo lei, che cosa dovrebbe fare oggi Renzi?
R. Il suo Pd per affermarsi deve essere la nuova Dc. Altro che solita litania di Berlinguer: qui c’è da fare la vera nuova Dc, un partito sostanzialmente al centro che guarda a sinistra, senza spostarcisi.
D. Ma non è la solita posizione post-margheritina?
R. E no. Rosi Bindi, Dario Franceschini, Beppe Fioroni, lo stesso Enrico Letta si sono prestati a fare le foglie di fico centriste a un impianto sostanzialemente piediessino. Andavano «sotto padrone» di D’Alema e Walter Veltroni, in realtà.
D. Dirsi favorevoli a un Pd nel Pse parrebbe, in effetti, una mossa congressuale...
R. Ecco, Renzi non faccia questo errore. La storia del socialismo europeo, paese per paese, è fallimentare. Non si capisce perché il Pd dovrebbe celebrare in un congresso del Pse in Italia, nel 2014, come qualcuno vorrebbe. Per far cosa? Per celebrare Martin Schultz, un socialdemocratico tedesco che, a casa sua, non vogliono perché fa perdere la Spd?
D. Contrario, dunque...
R. Contrarissimo. Né mi interessa la verniciatura lessicale di «un Pse diverso». Non tollero il «diversamente berlusconiano», neppure quando è sinistra.
D. Senta me su un piano pratico, il Renzi segretario che cosa dovrebbe fare?
R. Il capo. Può vincere le elezioni, quelle per Palazzo Chigi intendo, solo e soltanto se, una volta eletto segretario, sarà lui il leader. Vincesse anche solo col 50,1% ma, dal giorno dopo, tutti devono fare quello che dice lui.
D. Perché teme che esiti?
R. Ho vissuto queste vicende sulla mia pelle. Quando s’è trattato di fare le liste e lui ha finito per trattare i 27 posti per gli amici suoi. No, stavolta deve organizzare il partito come un comitato elettorale di «Renzi premier 2015», via le correnti per davvero e si lavora per lui. Così finalmente il Pd sarebbe un partito di massa, popolare, interclassista, tutti aggettivi che si usavano per la Dc, vorrei sottolineare, ma con la grande novità leadership. Un partito del XXI secolo. E spero non ci pensi due volte...
D. Perché, se no, cosa rischia?
R. Davanti non avrà solo B., ma una coalizione composta da un nucleo duro berlusconiano ma che ha poi, una formazione per tutte le sensibilità, dal partito ciellino di Roberto Formigoni, Maurizio Lupi e Mario Mauro, che non a caso vogliono le primarie di centrodestra, fino alla Lega. Un’area che, stimandola al minimo, sta al 35%.
D. E Renzi?
R. Renzi deve andare da solo, perché deve mostrare la sua vocazione maggioritaria fino in fondo, deve fare il 4-3-3 alla Zeman, la partita la gioca solo lui. Ma deve andare a contendere i voti all’altro schieramento e, in questa battaglia, non lo premierà appunto stare con Hollande. D’altra parte questa è la sua storia, la nostra storia.
D. E cioè?
R. La missione dei cosiddetti popolari era mettere in condizione di marginalità culturale e politica tutto ciò che ha radice comunista. L’ho fatto sempre, da quel 1985 che m’affacciai in una sede della Dc del quartiere Testaccio di Roma, per iscrivermi. I comunisti avevano anche alcuni elementi condivisibili ma puntavano sempre all’egemonia.
D. Renzi e il centrodestra, si diceva. E Beppe Grillo, di cui lei ha anticipato l’exploit?
R. Vivendo la rete quotidianamente, avevo capito presto che il M5s era sopra il 25%. Allo stesso modo dico che Grillo è ancora là: se le capacità propulsive di Renzi fossero inferiori alle attese e se anche l’operazione che B. ha varato non ottenesse gli esiti sperati, con una legge come questa, vincerebbe lui, Grillo.