Gaia Piccardi, Corriere della Sera 19/11/2013, 19 novembre 2013
DALLA PASIONARIA ALLA DIVA: L’EVOLUZIONE DELLA SPECIE
«Non era tanto una questione di soldi, ma di eguaglianza...».
La sindacalista che ha permesso a Maria Sharapova di rinnovare il contratto con Nike sulla base di 70 milioni di dollari in 8 anni e a Serena Williams di incassarne 2 milioni e 600 mila sbancando l’ultimo Us Open, esattamente come Rafa Nadal, quando vinse il primo titolo Slam della carriera — Wimbledon 1966 — si mise in tasca un buono premio da 45 sterline, da spendere presso i grandi magazzini Harrods. Non era tanto una questione di soldi, ha raccontato Billie Jean King al Guardian alla vigilia del suo 70esimo compleanno (venerdì, scorpione per un pelo, complimenti e auguri), ma di parità dei sessi e dei diritti. E non c’è da stupirsi se Sports Illustrated , ancora oggi, la considera «l’atleta più significativa del Ventesimo secolo». Oltre alla sua carriera, infatti, Billie Jean ha rivoluzionato l’altra metà del pianeta tennis, quell’armata brancaleone che, mentre i maschi guadagnavano posizioni nella scala sociale dello sport, arrancava mendicando racchette, abbigliamento tecnico, palline extra per allenarsi e partecipazioni ai tornei dello Slam.
Californiana di famiglia metodista, prima sposata King e poi lesbica dichiarata, Billie Jean debutta sul circuito americano nel ’59 e su quello internazionale nel ’61, quando partecipa, 17enne, a Wimbledon. Pasionaria nell’anima e nel portafoglio, spinge per l’apertura del tennis ai professionisti: nel ’68, in pieno femminismo e all’inizio dell’era Open, ha già vinto 3 titoli Slam, per la gloria e un tozzo di pane. «Il mio terzo Wimbledon venne pagato 750 sterline. Rod Laver, che vinse lo stesso anno, ne prese 2 mila. Cosa c’è di male a guadagnarsi da vivere con il tennis?, mi domandai. E cominciai a rimboccarmi le maniche...». La strada è in salita, ma Billie Jean ha polpacci robusti e grinta da vendere. Viene a sapere che i tennisti si stanno raccogliendo intorno a una sigla, dando origine a un’associazione professionale (l’odierna Atp). «Includerete anche noi donne? m’informo. Neanche per sogno, mi sento rispondere, nessuno spenderebbe un centesimo per vedervi giocare a tennis». È come sventolare la legge di stabilità davanti alla Camusso. La King contatta Gladys Heldman, storica fondatrice di World Tennis Magazine, e le prospetta le enormi potenzialità di spettacolo-marketing-introiti di un circuito femminile. Il 23 settembre 1970, 9 tenniste (7 americane, 2 australiane) pagano una cifra simbolica, un dollaro, per aderire al neonato Tour. Nel giugno ’73, riunite come carbonare in un albergo di Londra durante Wimbledon, le ragazze fondano la Wta (Women’s tennis association), il cui leggendario slogan sarà: you’ve come a long way, babe ; ne hai fatta di strada, bambina. A quel punto resta un’ultima pietra miliare, da conficcare sulla strada della liberazione delle donne. Battere, pubblicamente, un uomo. Il 20 settembre di quell’anno, a Houston, Billie Jean umilia il collega Bobby Riggs 6-4, 6-3, 6-3 davanti a 30 mila tifosi urlanti e a una platea televisiva di 100 milioni di spettatori. La sera prima Randy, fratello di Billie, le chiede se si sente di poter vincere: «Ci puoi scommettere la casa» è la risposta.
Se oggi i tornei dello Slam pagano la stessa cifra a uomini e donne, se Serena williams è 4a nella classifica bisex dei guadagni (prize money) di tutti i tempi, se Maria Sharapova si batte nel campionato dei miliardari con i Federer, i LeBron James, i Messi e i Ronaldo, se le tenniste sono le uniche creature sul playground dello sport professionistico mondiale a ricevere parità di trattamento economico, di visibilità e di gradimento da parte di pubblico e sponsor, un po’ del merito è anche della sindacalista di Long Beach, nata Moffitt e sposata King, icona non certo per la sua bellezza ma per le sue idee di grandezza. «Eravamo un gruppetto di amiche. Mi elessero leader...». Ne hai fatta di strada, ragazzina settantenne.
Gaia Piccardi