Mattia Feltri, La Stampa 19/11/2013, 19 novembre 2013
ANDARE A VEDERE ZALONE PER CAPIRE CHI SIAMO
Le nostre opinioni sono spesso consuetudini. Si aderisce con destrezza non tanto al politicamente corretto – categoria ormai confusa – ma al politicamente ricorrente, e cioè all’idea che non provoca problemi in società: l’Europa è indispensabile, serve un centrodestra moderno ed europeo (che cosa è?), un centrosinistra tanto più, il dovere sacro della beneficenza, la parità fra i sessi e fra i generi.
Poi arriva Checco Zalone e canta «che senso avrà questo sole al tramonto se torno a casa e non trovo pronto?». Il rischio qui è di cominciare subito male e cercare chissà quale politologia frettolosa, o quale sociologia dopolavoristica, e sperare di cogliere le ragioni per cui da ieri «Sole a catinelle», l’ultimo lavoro di Zalone, è il film italiano con più incassi nella storia: quasi 44 milioni. Battuto il precedente, che era di 43, e apparteneva sempre a Zalone con «Che bella giornata» del 2011. Per chiudere la parentesi contabile, da noi un solo film ha guadagnato una cifra maggiore: «Avatar» di James Cameron, 60 milioni.
Innanzitutto «Sole a catinelle» fa ridere, e non è un dettaglio. Zalone fa ridere, e molto, ed è noto da secoli, perlomeno a chi lo seguiva già ai tempi della clip di Checco Consoli, immaginario fratello di Carmen che era confusa e felice perché puzzava «di merluzzo proprio come zio Santuzzo». Erano gli esordi del 2005 o 2006. Ci si liberava dagli obblighi pedagogici dell’arte (ronf) e si gustavano su YouTube le parodie fulminanti della figlia di Jovanotti («a te che dici grande amore e poi dici amore grande / e pe’ sta cazzata qui ti senti Dante…», roba – dice – copiata dalla pubblicità del pennello Cinghiale) o di Vasco Rossi («eeehhh… ooohhh… dico a te!... che non sei mica me!…»).
E poi «Sole a catinelle» non è un cine panettone, categoria alla quale comunque il cinema deve qualche cosa, se non altro i denari con cui si è tirato avanti. Zalone non esce ogni anno, in produzione seriale. Stavolta ce ne sono voluti più di due, di anni, perché la prima sceneggiatura non funzionava e la si è riscritta da capo. Ma forse non è nemmeno il caso di ricorrere agli strumenti e alla retorica cinefila, perché Zalone non ha tutte le pretese che spesso ha chi si arrampica a mani nude su una parete, sperando di arrivare alla sommità dell’enigma. Forse è vero che le cose funzionano fino al miracolo di quarantaquattro milioni di euro per tanti motivi, perché le canzoni sono orecchiabili, le battute efficaci, la trama non friabile, e forse sarà anche vero – come ha scritto Michele Serra sull’Espresso – che in anni di crisi e di particolare odio dei privilegi, l’orgoglio burino con cui Zalone riscatta il popolo dell’outlet è un calcio a porta vuota. Oppure sarà vero che il film e il suo trionfo segnalano la frattura fra la sinistra e i nuovi poveri (o non ricchi), sebbene si tratti di una frattura vecchia almeno da quando Silvio Berlusconi e la Lega hanno cominciato a prendere i voti di operai e pensionati, un paio di decenni fa.
O magari, se proprio si è costretti a dare un contributo alla causa delle decifrazione di un’apoteosi, si deve tornare all’inizio di questo articolo. Per un’ora e mezzo Checco trascina il pubblico dalla parte sbagliata della presentabilità sociale, si impadronisce di ogni posizione insostenibile fuori dall’osteria: omofobo, anticomunista, maschilista, fan dell’anidride carbonica in associazione alle bevande. Ma non soltanto: il bambino che viene curato con ippoterapia e dieta vegana perché affetto da mutismo selettivo – il padre regista sta girando «Eutanasia mon amour», e ha abbandonato ogni interazione emotiva o qualcosa del genere – ricomincia a parlare perché Zalone lo tratta da bambino, e cioè dandogli una strigliata. Alla cena di beneficenza a Portofino il missionario si chiama don Fabergé, Hermès è la figlia del miliardario, tutti divorano aragosta mentre il maxischermo manda il documentario della fame nel mondo. C’è un po’ di ovvio, un po’ di infallibile Radical chic di Tom Wolfe riproposto quarant’anni dopo; c’è un po’ di liberazione dall’obbligo di essere sempre impeccabili: ci si sente sollevati a sentir dire a Zalone, e vedergli fare cose che non noi diremmo e faremmo mai, ma qualche volta le abbiamo pensate. C’è qualcosa di rivelatore in lui che descrive ai vecchi del paesino come sono fatti i bimbi, perché i bimbi stanno scomparendo, e quelli rimasti li trattiamo come piccoli rimbambiti di cristallo, con le migliaia di attività doposcuola, le terapia psicologica, la respirazione yoga (no grazie, dice Zalone, il mio respira già).
Alla fine il rebus è irrisolvibile. Ci sono tanti motivi per andare a vedere Zalone, anche se probabilmente non sono 44 milioni. Uno è centrale: le cose che funzionano non sono per forza le più belle. Ma tantomeno sono le più brutte: se non si capisce qualcosa di Zalone, non si capisce nulla di noi, di noi tutti (e anche la pedagogia è salva).