Andrea Sorrentino, la Repubblica 18/11/2013, 18 novembre 2013
IL DEMONE DI WALTER
[Walter Mazzari]
Il demone che gli rugge dentro chiede continuamente dazio, non si acquieta mai. Lui prova a disorientarlo, aspirando avido quelle sue sigarette lunghe e sottili. O a ingannarlo, provando a vedere un film ogni tanto. Macché. Il suo destino è fingere qua e là una normalità impossibile, inafferrabile, e specchiarsi invece in Walter Mazzarri, allenatore di calcio, uomo che si è fatto e si disfa da sé, prigioniero del demone. «Sono sempre in partita, io. Non stacco mai. Mai. Il cervello va ogni volta lì, sulla squadra. So che è difficile starmi vicino. Mi consigliano di distrarmi ma niente, non ci riesco. Vedo un film in tv e all’improvviso la mente corre via, mi perdo le battute degli attori, non capisco più nulla. Devo vedere solo cose registrate, così spingo sul pulsante dello stop quando voglio».
Ma è una vita infernale, o no?
«Ma no, è il mio modo di essere, mi viene naturale ed è parte di me. So fare l’allenatore solo così, altrimenti sto fermo che è meglio. Il momento più terribile sono quei venti minuti di riscaldamento prima della partita: i giocatori sul campo e io lì a pensare cosa potrà succedere, a macerarmi. Poi si gioca. Poi l’arbitro fischia la fine e io già penso, nell’ordine: cosa dire nelle interviste, che sono sempre troppo lunghe; salire sul pullman per chiedere a Frustalupi informazioni sul prossimo avversario e farlo morire coi dettagli e le richieste; guardare il dvd della nostra partita per studiare gli errori e mostrarli ai giocatori. L’unica cosa che conta è la prossima gara, che è sempre una finale di Champions. E’ così da quando ho iniziato, e ormai ho passato le 530 panchine da professionista. Non ho pace neppure d’estate: finisce il campionato e mi guardo indietro, a ciò che ho fatto e a come l’ho fatto, poi se ho raggiunto l’obiettivo faccio una cosa che non posso raccontare, ma insomma sconto una pena, un voto, è una camminata molto faticosa in salita in un posto che non dico. Ma è stata una bischerata scegliermi ‘sto voto: ormai invecchio ed è sempre più dura. L’ultima volta, un altro po’ e ci muoio, su quella salita».
La salita è la metafora della sua vita, si direbbe.
«In tutta sincerità, e senza voler passare per il presuntuoso che non sono: mi sento unico. Sono partito non da zero, ma da sottozero. Senza aiuti o raccomandazioni sono arrivato in serie A. Mi sono sudato tutto. La mia carriera non l’ha fatta nessuno, conosco tutti i ruoli tecnici: sono stato osservatore, allenatore dei portieri, allenatore in seconda, primo allenatore in Primavera, poi in C2, in C1, in B, in A, sempre andando avanti, mai un esonero. Ne sono orgoglioso, mi sento realizzato. Ho avuto soddisfazioni che mi tengo dentro e che sono migliori di altri riconoscimenti più visibili, e divido i meriti con i collaboratori che mi seguono ovunque. Vorrei che in Italia ci fosse più meritocrazia, più rispetto per chi lavora bene: tutto andrebbe meglio».
Lei parte da lontanissimo, e con radici all’Elba.
«I Mazzarri vengono da Portoferraio. Abbiamo il mare dentro. La mia famiglia parte da zero, come si dice? Una scarpa e una ciabatta. Dal nulla, mio padre apre una piccola industria nel ramo alimentare. Ho il ricordo di lui che lavora e mia madre che bada alle fatture, già da piccolo vivo nel mondo dei conti da far quadrare, i numeri sul foglio, gli investimenti calcolati. Mio padre mi vorrebbe in azienda ma mi piace il calcio, e comunque già a 15 anni per orgoglio non voglio la paghetta, ce la devo fare da solo. Il mestiere di calciatore non fa per me, lo capisco subito: adoro giocare ma non sono a mio agio nello spogliatoio, nelle sue logiche. Sono un lupo solitario, fuori dal coro. Frequento l’università, Economia e Commercio, mi mancheranno per sempre otto esami perché a un certo punto parto militare e addio, ma i primi esami li sostengo in sociologia e psicologia perché l’argomento mi affascina. Col primo contratto acquisto una casa mentre i miei compagni comprano i macchinoni, faccio investimenti mirati in Borsa. A 28 anni capisco che devo pensare al futuro. Devo tutto a Renzo Ulivieri, che da allenatore mi fa capire che ormai sono al capolinea poi anni dopo si ricorda di me, mi chiama a fare l’osservatore “in prova” per il Bologna dopo avermi chiesto consiglio su come comprare una casa all’Elba, perché sapeva che me ne intendevo. Scrivo relazioni così chiare che Ulivieri le mostra orgoglioso ai giornalisti. Il primo anno viaggio a spese mie, più tardi sono capo degli osservatori, vado pure in Sudamerica a fare l’ultimo esame al giocatore da comprare. Poi allenatore a vari livelli, le giovanili, infine la prima panchina da professionista.
Acireale, C2, anno 2001.
«Il presidente è Pulvirenti, che ha cacciato 15 allenatori nei tre anni precedenti. Esordisco a Pozzuoli, 1-1. Tempo dopo perdo un derby e tutti pensano che verrò esonerato. Mi trovo i tifosi sotto casa: ci parlo fino alle 2 di notte, spiego e argomento, finisce che mi applaudono. L’indomani Pulvirenti mi convoca: «Lei mi ha convinto, ho capito di avere un allenatore vero». Da lì Pistoia in C1, il Livorno in B che dovrebbe fare un campionato tranquillo invece lo porto in A dopo 55 anni, con Chiellini e altri; tre anni alla Reggina, con salvezze da record, il lancio di gente come Mozart, Nakamura e Rolando Bianchi che vengono venduti con enormi plusvalenze, vado via che la Reggina ha il miglior bilancio della A; e la Samp che con me torna in Europa e in finale di Coppa Italia dopo una vita, Bellucci al record di gol, Franceschini e Sammarco bravissimi, Cassano rigenerato, Maggio che è il simbolo perché parte come riserva di Zenoni e poi segna 9 gol, arriva in nazionale... Infine il Napoli in Champions, ora l’Inter. Un passo dopo l’altro, sudandomi tutto».
E lasciando tutti i club in condizioni economiche eccellenti, a differenza di altri allenatori che magari vincono ma lasciano macerie. E’ un suo vanto anche questo?
«Certamente. A volte c’è approssimazione nel giudicare un tecnico, che secondo me è stato bravo non solo se ha vinto un trofeo, ma soprattutto quando i risultati sportivi e aziendali coincidono. Io ci sono riuscito spesso, anzi sempre. A Thohir illustrerò il mio lavoro come ho fatto con tutti i presidenti, e ce ne sono tanti che mi amano ancora, poi valuti lui».
Però confessi: quando lei ha firmato con l’Inter non le era stato detto che c’era Thohir dietro la porta, vero?
«No. Devo essere onesto: non sapevo che lui fosse interessato a prendere il club. L’ho scoperto più tardi».
Lei coi giocatori lavora di psicologia poi viene la tattica e il resto, vero?
«Bisogna convincerli che i loro interessi coincidono con quelli della squadra. Io faccio colloqui personalizzati di 30 minuti a luglio, con tutti, e solo dopo parlo alla squadra riunita. Alcuni dicono che sono un “martello”, ma è perché voglio essere chiaro da subito, stabilisco regole, creo un rapporto chiaro con tutti. Decido io quando entrare nello spogliatoio e quando uscirne, perché ne conosco gli umori. Posso sbagliare una formazione o una sostituzione, ma non sbaglio sulle regole e sono sempre al di sopra delle parti. Così nelle mie squadre non ci sono clan, il gruppo è unito, anche all’Inter: vedo giocatori che si vogliono bene, che lottano in ogni partita e danno l’anima, al di là della qualità del gioco. La classifica ora non la guardo, ma intanto mi fa piacere che si sia creato il clima giusto».
Perché lei preferisce la difesa a tre?
«Primo: per avere più variazioni in fase di costruzione del gioco, perché ci sono più linee di passaggio. Secondo: in difesa si può rischiare l’anticipo perché c’è un difensore in più dietro. Terzo: si possono fare adattamenti sull’avversario in fase passiva per poi rovesciare il campo dopo aver riconquistato palla, e lì i giocatori devono conoscere a memoria schemi e movimenti preordinati. Si parla poco di tattica, purtroppo, dopo le partite: solo risultato e polemiche. Che rapporto ho con gli altri allenatori? Semplice e chiaro: rispetto chi mi rispetta».
Uomo di mare, ha quasi sempre allenato al mare: ora come fa a vivere a Milano?
«Se al mattino guardo il mare mi predispongo meglio al lavoro, ovvio. Però Milano ha delle cose belle che una città di mare non ha, ad esempio ho scoperto in centro case stupende, comode, e ci sto bene. Poi sa com’è, noi viviamo di risultati. Se vinci la gente ti sorride e stai bene, pure con la nebbia; se perdi, anche il cielo più azzurro ti sembra pieno di nuvole».
Lei è in giro dal 2001 e la famiglia non l’ha mai seguita. Perché?
«Quando iniziai ad Acireale, con il serio rischio di un esonero in tempi brevi, mio figlio Gabriele aveva 5 anni e non ce la sentimmo di fargli iniziare la scuola lontano da casa. Così, lentamente, ho tenuto mia moglie e mio figlio lontani dalla mia vita. A volte chiedo a mia moglie se sa che mestiere faccio... Ci siamo visti poco in questi 12 anni. Uno dei miei crucci è di non esserci stato negli anni più belli di Gabriele. Quando tornavo ero come un mammo, per carità, lui dormiva sempre con me, in vacanza non ci staccavamo mai. Ma ricordo certi distacchi brutti, quando allenavo a Reggio uscivo alle 5 di mattina e lui piangeva, perché non sarei tornato che due settimane dopo. Ho trascurato lui e la mamma, sono stato via tanto. Ora ha 18 anni, vado ad abbracciarlo e non mi vuole più, mi manda via. Per forza, ormai è un uomo. Ma spero che capisca, un giorno, perché il papà ha scelto questa vita ».