Simonetta Fiori, la Repubblica 18/11/2013, 18 novembre 2013
MA IL DRAMMA DEL FIGLIO LE IMPEDÌ LA FELICIT
[Inge Feltrinelli]
«Troppo tardi, Inge. I can’t enjoy my money. Quante cose avrei potuto fare con quei soldi per mio figlio Peter. Ora no, ora non so che farmene. Non ho più desideri». A un’amica si possono confidare le cose più intime, insospettabili nel giorno dell’incoronazione del Nobel. E Inge Feltrinelli era una sua amica da circa mezzo secolo, oltre che il publisher che l’aveva fatta conoscere in Italia. «Dopo l’annuncio, chiamai subito Doris nella sua casa di Londra», racconta ora Inge. «Non stavo nella pelle. Ma lei mi rispose con tono dimesso. Soffriva per quel figlio handicappato. Era la sua tragedia. Subiva quella condizione di schiavitù in cui precipitano i famigliari delle persone malate. La sentivo sfinita. E anche sorpresa: lei pensava di essere antipatica ai signori di Stoccolma».
Vi siete poi risentite?
«Mi invitò alla cerimonia del Nobel. E io le feci fare dal mio amico Stephan Janson due caftani di velluto, uno nero e l’altro rosso rubino. Ma il suo medico le impedì di muoversi».
Un’amicizia durata a lungo.
«Sì, la conobbi a Londra al principio degli anni Sessanta. Giangiacomo volle cercarla. E io me ne innamorai. Anzi, l’avevo incontrata ancora prima nell’edizione inglese del Taccuino d’oro, che Feltrinelli avrebbe pubblicato nel 1964. Una lettura per me fondamentale, che paragono al Secondo sesso di Simone de Beauvoir. E lei – di persona – assomigliava ai suoi scritti. Semplice e bellissima. Tra noi scattò un’intesa immediata».
Era una cosmopolita, nata in Iran, cresciuta in Rhodesia e approdata a Londra. Ed era una donna libera. C’era un fondo che vi accomunava.
«Questo è vero, anche se lei ebbe la grande forza di lasciare nei primi anni Quaranta in Rhodesia un marito e due figli. Non so se sarei stata capace».
Portava il cognome del secondo marito.
«Sì, anche io ho mantenuto il cognome di Giangiacomo. Una donna realmente autonoma non ha bisogno di dimostrarlo. E lei era allergica alle etichette, a cominciare da quella femminista».
Ha saputo esplorare l’animo femminile. Le raccontava di sé?
«No, era molto riservata. Anche sui suoi amori – che furono tanti – non una parola. Una volta la provocai su un love affair con un famoso editore inglese, ma Doris lasciò cadere».
Forse le fornivano materiali per i suoi romanzi.
«Era soprattutto una donna di battaglia. Il suo impegno contro l’apartheid mi ricordava quello della Gordimer, anche se Doris la detestava. Forse perché sono donne molto diverse: pancia, cuore e sentimenti Doris; cerebrale e sofisticata Nadine ».
Scrisse sulla vecchiaia un bellissimo libro, il Diario di Jane Somers. Parla della rabbia di invecchiare, e della vitalità che questo sentimento esprime.
«Non so se provasse rabbia. Io l’ho vista sempre molto naturale. Voglio ricordarla con un’ultima istantanea: lei che nel giorno del Nobel torna nella sua casa di Hampstead con la sporta della spesa. È il fascino dell’assoluta semplicità».