Michele Farina, Corriere della Sera 18/11/2013, 18 novembre 2013
LAURA CHE SORRIDE QUANDO VEDE IL NEONATO DELLA BADANTE [L’INCHIESTA - ALZHEIMER IN ITALIA]
Laura ha due badanti: Patti, 27 anni, e Ange Michel, 10 mesi: anche lui «solleva» Laura. Aiuto impagabile: la fa sorridere. Patti ha lasciato in Costa d’Avorio la violenza e il marito. «Come facevamo a tenere sulla strada una ragazza incinta di sette mesi? — dice Sirio, 67 anni, di Verona, ultima professione falegname — Di badanti ne abbiamo cambiate tante, come tutti. Anche loro hanno un sistema nervoso. Non c’è formazione adeguata. Vanno nel pallone, come noi».
Doveva essere una cosa temporanea. «Poi è nato il bambino, mia moglie, che ha una demenza vascolare, ha detto “Che bello, che bello”, e allora abbiamo mandato via la vecchia badante». Ange Michel è nato con una patologia seria: motivo in più. «Patti e mia figlia sono come sorelle — dice Sirio —. Anche se non è facile, nel quotidiano, unire due continenti». Ma Laura, nel letto in soggiorno, sorride. E anche Sirio (che ha conosciuto la moglie sui primi campi da sci). Il vecchio camper su cui godersi la pensione è sgonfio in cortile. Ma per Sirio anche questo viaggio immobile è una ricchezza: ha fondato un’associazione, Abc, per aiutare a vedere l’Alzheimer come qualcosa che non solo prende ma anche dà.
Ange Michel è il più piccolo assistente domiciliare d’Italia. Badare non basta (Ediesse) a cura di Sergio Pasquinelli e Giselda Rusmini, conta 830 mila badanti: quasi tutte donne, al 90 per cento straniere, assistono un milione di ultra 65enni. Sei su 10 abitano con chi curano. Età media: 42 anni. Provenienza: 64% Est Europa, 29% Sudamerica, 11% Asia, 7% Africa. In regola, con contratto: 38%. Guadagna sopra i mille euro il 30% di chi lavora a ore, il 20% dei co-residenti. Quando arriva l’Alzheimer, trovare «la badante giusta» è la ricerca del Santo Graal. Ognuno ha la sua storia, bella o brutta. Il record in Emilia: una famiglia ha cambiato 18 badanti. Poche le italiane, anche se in aumento per la crisi. «È l’unico lavoro che si trova» dice Nadia: in settimana pulizie negli uffici, nel weekend cura l’ottantenne Angela, dà il cambio a Delia, equadoregna. Angela non parla quasi più: «Ripete solo i nostri nomi, Delia e Nadia». Necessità e passione: Cristina Tagliabue, 45 anni, di Cusano, badante orgogliosa di esserlo. «Avevo un centro abbronzatura. Non mi sentivo viva. Dieci anni fa ho fatto i corsi per Osa (operatore socio assistenziale), ho provato in ospedale ma lì non riesci veramente a stare vicino ai malati». A casa è diverso: «Molti italiani ci guardano con disprezzo. Io non mi vergogno ad assistere un malato, a pulirgli il sedere se necessario. Per molti meglio disoccupati a vita, salvo poi dire che gli stranieri ci rubano il lavoro». Per Cristina la cosa più bella è «conquistare la fiducia». Ma servono lo spirito e la preparazione. «Le italiane cominciano a farlo per necessità, però molte con frustrazione. E così è più difficile trattare bene i malati».
Un ponte fra culture
Di recente in Veneto: un’italiana scoperta a picchiare una signora con demenza. Storie che ribaltano i luoghi comuni, come quella di Laura che si «risveglia» con Ange Michel. Storie di integrazione (quanto diffuse?) nel senso intravisto da Giuseppe A. Micheli, docente di sociologia alla Bicocca di Milano: il lavoro di cura come possibile «ponte tra due mondi». Ponte tra culture. E tra due fasi della malattia. È il modello italiano, quando (spesso) i servizi pubblici latitano: badante finché si può (con l’assegno di accompagnamento sotto i 600 euro sempre meno facile da ottenere), poi la difficile ricerca di una casa di riposo o Rsa (residenza sanitaria assistenziale) decente a prezzi accessibili. Liste d’attesa di anni. Francesca ne ha visitate tante nella sua città, Roma. L’ha trovata in Umbria, Castel Giorgio, sulle colline fuori Orvieto. Residenza Alzheimer «Non ti scordar di me». Il motore, Vera Benella, sfida i malanni, anche i propri: «Mi sembra di non fare mai abbastanza» dice guardando le cucce dei due golden retriever addestrati alla pet therapy . L’altro giorno è arrivata un’ispezione, il finanziere l’ha vista tremare: «Signora non abbia paura». E lei: «Tranquillo, tremo perché ho il Parkinson». Un mito. «Non volevo portare mia madre così lontano — dice Francesca — per due anni l’ho tenuta a casa mia. Poi con mio marito non riuscivamo più a sollevarla. Con enorme senso di colpa, che ho dentro sempre, ho girato diverse case di cura a Roma e sono scappata. Ospiti allettati, spesso assopiti, abbandonati. Sono arrivata da Vera senza avvisare: ospiti tutti in salotto, vestiti, curati. Chi cantava, chi no. Un altro mondo. Appena c’è un po’ di sole li portano fuori. Monitoraggio continuo dei farmaci. Attenzioni. Mia madre cercano di farla mangiare da sola, anche se serve il doppio del tempo. Professionalità e umanità sono merce rara».
Il viaggio di Francesca
In Italia ci sono migliaia di case di riposo/Rsa (residenza sanitaria assistenziale). L’84% dei posti letto è al Nord: 236 ogni 10 mila anziani residenti (76 al Centro e solo 17 al Sud). Roma ne ha tante. Impossibile vederle tutte. Il Corriere ha ripercorso il viaggio di Francesca e di sua madre Ida visitando in incognito 5 delle «sue» 6 case di cura (convenzionate con l’Asl, spesso con «agganci» ai vari ospedali). Un viaggio triste. Villa Giulia primo pomeriggio, tutti nei letti con le sbarre alzate, senza assistenza, nessun operatore all’entrata, il grido infinito di una donna: «Giuseppinaaaa». Villa delle Magnolie, ospiti raccolti in una stanza con un’operatrice ad ascoltare Que sera, sera , di sopra la signora Rita sola e sorridente, la borsetta in mano, pronta «a tornare in Sardegna con mio figlio». Casa di Cura Corviale, caldo pomeriggio di sole, operatori fuori a turno a fumare e pazienti dentro, a letto come Gastone, ex antiquario che ha «girato l’Europa con i camion»: «Ognuno c’ha il destino suo». Villa Maria Immacolata, ore 17, Maria legata a una carrozzina fissata al termosifone: «Qui si sta bene, ma ci vuole calma e profumo». Grandi camerate spoglie, file di letti, un operatore a bassa voce: «Se ha una madre malata non la porti qui». Perché sono tutte a letto? «Non c’è abbastanza personale per alzarle». Parco delle Rose, alberi meravigliosi, interni desolati: Evelina («ma il mio vero nome è Evelyn») e le altre allettate alle 18, senza tv. Gli anziani hanno bisogno di 5 o 6 ore di sonno, dicono i geriatri. E allora vai di sedativi?
Fiori e semolino
È chiaro che nelle Rsa italiane c’è un abuso di farmaci e una carenza di cure. Un altro mondo c’è. Nicchie in ordine sparso, spesso cresciute fuori dal sistema. Le istituzioni dovrebbero valorizzarle anziché, come dice Marco Trabucchi, soffocarle con burocrazia e indifferenza. Per esempio a Egna, provincia di Bolzano: la casa di riposo si chiama Griesfeld. Niente rose di parole, ma fatti e semolino (gries ). Quattro piani affacciati su uno spazio centrale che dà l’idea della piazza (con tanto di fontana in pietra): 43 stanze singole, 17 doppie. Niente camice o guanti di lattice: «La medicalizzazione è fonte di stress per gli ospiti» dice la direttrice Cornelia Ebner. Nessun bavaglio ma al massimo (per le signore) grembiuli (come a casa). In questi giorni hanno allestito una mostra: «La biancheria intima seducente del passato». Che meravigliosa follia, in giro per una casa di riposo manichini in mutandoni e sottoveste. La fisioterapia si fa nella cappella (il corpo e lo spirito, «il parroco si è arrabbiato ma il Papa ci perdonerà»). Il principio di fondo: normalità. Qualità di vita. «Con l’Alzheimer non si tratta di cercare un modello sanitario per guarire — dice Albert March, primario di geriatria all’ospedale di Bolzano —. Non vuol dire che le competenze sanitarie qui non esistono, ma che devono adattarsi alla vita della comunità». Sul fronte della stimolazione cognitiva la ricetta qui è molto normale: «Obbligare qualcuno a fare i disegnini è deprimente», dice March. Meglio tagliar legna o bagnare i fiori o pelar patate. Al quarto piano, nella comunità abitativa per ospiti con disturbi del comportamento, non c’è traccia della parola Alzheimer né di porte di sicurezza o barriere ai letti. Le stanze di uno chalet. All’entrata un cancelletto di legno e la scritta di benvenuto in einer erlebniswelt (Cornelia, la fate anche in italiano?): «Un altro vivere». Una comunità autosufficiente di 10 persone non autosufficienti, che con un paio di operatrici adesso sta tagliando patate per il pranzo. Aida, 66 anni, ex ausiliaria nel vecchio ospedale, demenza fronto-temporale, era finita in psichiatria. Qui al Griesfeld si rende utile e un po’ rivive l’esistenza di prima. Sottolinea Trabucchi, pioniere dell’Alzheimer in Italia, a capo del Gruppo di Ricerca geriatrica: «Certo il sudoku, le varie tecniche formali di attivazione sono utili, ma prima ancora è la vita normale che va valorizzata». Cosa aspetta l’Italia a coltivare il meglio: meno parchi delle rose, più semolino.
(6 - continua)