Marco Belpoliti, La Stampa 18/11/2013, 18 novembre 2013
ITALIA TERRA DEI CACHI
Cachi o Kaki? Il dubbio non ha senso, dato che la parola è conosciuta da tutti. Indica non tanto l’albero (il Diospyros Kaki, una pianta da frutta, tra le più antiche tra quelle coltivate dall’uomo, originaria della Cina), quanto i suoi frutti. Questa è la stagione dei cachi. Da qualche decennio sono commercializzati nei negozi dei verdurai.
Arrivano sulle nostre tavole dalle coltivazioni che si trovano in Emilia e in Romagna, oltre che in alcune zone del Salernitano. Vengono venduti dentro contenitori di polistirolo, per conservane la compattezza, dato che sono fragili: s’ammaccano o rompono con facilità. Il packaging è diventato decisivo anche per questo frutto; uno dei tre cachi, che compongono la confezione standard, è oggi avvolto nella carta velina, come quella che si usa per gli agrumi, con tanto di decorazione e indicazione del produttore. Sembra che le prime coltivazioni si siano diffuse dopo la Prima guerra mondiale. L’albero è infatti comparso alla fine dell’Ottocento; secondo alcuni il primo Kaki italiano è stato coltivato nel giardino di Boboli nel 1871. Di certo, appena fu possibile, nei pressi di ogni casa di casa di campagna, all’inizio solo padronale, poi anche vicino alle case dei contadini, se ne piantava uno, segno di un posizionamento sociale cui nessuno voleva rinunciare: esotismo a buon mercato. Così che in questi giorni, cadute le foglie, dai rami spioventi dell’albero, presente un po’ dovunque, pendono i frutti rossi e arancio, di cui sono particolarmente golosi i bambini.
Non a tutti però piacciono i cachi. Allappano, e questo effetto è ritenuto da alcuni palati spiacevole. La pianta e il frutto hanno anche un forte significato simbolico nella cultura orientale; inoltre, dato che alcune piante di cachi sono sopravvissute al bombardamento atomico di Nagasaki, ha anche un significato di pace. C’è anche chi vi ha visto nella sua polpa un’immagine cristologica. Mu Ch’i, pittore cinese e monaco, li ritrasse nel 1200, nel tentativo di esprimere l’inesprimibile, la traccia sottile dell’Illuminazione. Nel Celeste Impero il carattere che lo raffigura, shih, è omofono della parola che significa “affari”. Forse per questo Elio e le storie tese lo assunsero come simbolo dell’Italia nella canzone con cui arrivarono secondi al Festival di Sanremo, nel 1996: “La terra dei cachi”. L’allusione non era perciò alla loro fragilità, come si era pensato, bensì agli affari, per lo più sporchi, che si facevano, e ancora si fanno da noi.