Anais Ginori, D Repubblica 16/11/2013, 16 novembre 2013
LA CINA MI È VICINA
[Loretta Napoleoni] –
Nemo propheta in Patria: nessuno è profeta in casa propria. Una vecchia regola che vale anche per Loretta Napoleoni, economista italiana non a caso emigrata da tempo in Inghilterra. Che nel nostro Paese di certo non piace a tutti: lei lo sa e non se ne cruccia. Anzi. Considerata da alcuni una sorta di Cassandra anti-euro e anti-Europa, da altri una talebana nemica dei capitali e delle banche, da molti una sorta di pasionaria accecata dal grillismo, ci ride su: «Sono una donna, sono fuori dall’economia di regime e dai giri delle consulenze, scrivo in inglese mentre molti editorialisti neanche sanno leggerlo e sono tradotta in arabo, russo e cinese: può bastare per giustificare l’invidia?». E si toglie qualche sassolino dalle décolletées: «Oggi anche i paladini dell’“austerità espansiva”, alla Giavazzi-Alesina per intenderci, la condannano. Meglio tardi che mai». Oppure «Non è vero che sono vicina a Grillo, semmai è lui che si è ispirato a me».
Noi la incontriamo per parlare di un primato, in qualche modo clamoroso: il partito comunista cinese ha infatti inserito il suo Maonomics, saggio sul boom di Pechino e sulla via cinese al capitalismo - di cui in questi giorni esce per Rizzoli una ristampa aggiornata -, nell’elenco «dei buoni libri, letture consigliate per promuovere ulteriormente la costruzione del partito e guidare gli organi dello Stato».
Ora le diranno: la Napoleoni vada pure in Cina. Come risponde?
«Con l’orgoglio di un riconoscimento da parte di un Paese immenso e in espansione come quello. La verità è che si tratta dell’ennesima dimostrazione di come in Occidente sia più difficile affrontare questo tipo di argomenti. La “via cinese” si rivela infatti una lente potentissima per analizzare la nostra società e i nostri errori. La Cina con il suo capi-comunismo (fra capitalismo e Mao, insomma) ha gestito la globalizzazione meglio delle democrazie dell’Ovest: la ricchezza, le opportunità commerciali, le condizioni di vita medie e l’indice di felicità della popolazione - da Tienanmen in poi e con tutti i limiti nella tutela dei diritti - sono clamorosamente migliorati».
I numeri non lasciano dubbi: con un Pil in atteso quest’anno al +7,8% e un tasso di investimenti all’estero al +17,6%, quello è un gigante che non si ferma più.
«Si dice che oggi inquini in maniera massiccia: è vero, effetto dell’industrializzazione repentina. Ma pochi dicono che la Cina è anche quella che oggi investe più di tutti nell’energia verde e nel business ecologico. Tutto questo mentre l’Occidente arranca, il suo modello di “neoliberismo euforico” mostra i propri limiti - ciò che funzionava nel 1950 del boom post-bellico non può essere replicato in eterno - e falliscono persino i tentativi di esportare la “democrazia” con le armi».
Non vorrà dire che anche a livello politico preferisce Pechino a Washington o Bruxelles?
«Io dico che così come è strutturata la nostra democrazia non funziona più. Il Presidente degli Stati Uniti può stare al potere al massimo 8 anni, ma i membri del Congresso invece possono esserlo a vita. E quando fai il politico di professione perdi il punto di vista della realtà. E in Italia? Classe dirigente imbarazzante a parte, non possiamo più neanche scegliere i nostri rappresentanti. C’è un capopartito che sceglie per noi. Dovremmo ripartire dalla decentralizzazione e dal territorio. In Cina si comincia dai condomini, che hanno oggi un peso politico pazzesco in tema di vivibilità e ambiente. Si passa poi ai quartieri, alle città e via risalendo la piramide. Certo: anche lì la distanza dal potere centrale è enorme, ma almeno sanno chi è l’interlocutore locale a cui rivolgersi».
È anche per questo che non crede alla grande casamadre europea e agli Stati Uniti d’Europa?
«Mi descrivono come un’euroscettica a prescindere, ma io dico altro. Non ho mai creduto alla teoria dell’Europa come un “cane grande” capace di confrontarsi con gli altri due mastini: gli Usa e la Cina. A noi manca il collante di un’integrazione al 100%, di una base culturale comune, di un’unica lingua o almeno di una scelta di bilinguismo deciso a Bruxelles e imposto in tutti i Paesi: potevano scegliere l’inglese, il francese, il tedesco e farlo studiare a scuola obbligatoriamente agli studenti europei. E invece abbiamo pensato di unificare storie e realtà diversissime in nome di una moneta comune. Che errore».
Propone forse di uscire dall’euro e tornare alla lira?
«Ma no. Dico però che l’unione monetaria presupponeva un’omogeneità che non esisteva e non esiste. E che oggi è una trappola mortale soprattutto per i più traballanti. Cosa dovevamo fare? Quando la Grecia stava fallendo, l’Italia avrebbe dovuto capeggiare i “Paesi della Periferia” e chiedere un euro a due velocità: il nostro sarebbe stato più debole, il debito pubblico sarebbe stato così rinegoziato o cancellato come è avvenuto per Atene ma almeno le esportazioni sarebbero decollate e le condizioni di vita migliorate. E invece eccoci in ginocchio e già tecnicamente falliti. Ma guai a dirlo, da noi vige il monocolore. La leadership cinese, almeno, invece di reiterare gli errori commessi di Mao ha saputo tagliare i rami secchi che rischiavano di soffocare l’albero e guardare avanti».
Insomma, finirà per andare a insegnare e fare politica a Pechino?
«Ci piaccia o no, il futuro è lì. Se foste egiziani, oggi quale sistema economico vorreste imitare? Quello occidentale o quello asiatico? Vi fidereste di leader e multinazioni che per anni hanno fatto affari con i regimi che vi hanno oppresso e derubato? E che oggi sono in crisi». Comunque per ora vota in Italia: fra Letta o Renzi, Casaleggio o Berlusconi chi le piace? «Nessuno. Nes-su-no. Se chiedessero a me di fare il nome di un Presidente del Consiglio ideale, non avrei dubbi: vorrei un Governo Bergoglio. L’unico uomo “politico” di alto livello oggi è lui: Papa Francesco».