Leonardo Sciascia, Il Sole 24 Ore 17/11/2013, 17 novembre 2013
VIAGGIO SICILIAN-SENTIMENTALE
Scrivere della Sicilia da lontano. E non soltanto perché sono a Milano, in una camera d’albergo, solo (e a rendere perfetta la solitudine, a fonderla con la libertà, ad alleggerirla e librarla, concorrono il fatto che si è d’estate ed è domenica: la città deserta, bella, amabile; e quando uscirò dall’albergo svagatamente andrò per le strade di quel pentagono stendhaliano che mi sono ritagliato e da cui raramente esco: tra il Duomo, la Scala, San Marco, palazzo Serbelloni, San Babila). Da lontano, dico, come se dalla Sicilia mancassi da venti, da trenta, da quarant’anni – ricordandola, amandola, senza affilarvi sopra ragione e rancore. Difficile operazione, per me. Non ho mai potuto amare la Sicilia interamente, senza una controparte di insofferenza, di risentimento, di avversione. Ho sempre dovuto e voluto fare i conti con lei, restandoci. Ho dovuto e voluto fare i conti con quello che c’è in lei di vecchio, di stupido, di tremendo; e col nuovo che diventa vecchio, come in quel film di Frank Capra, Orizzonte perduto, in cui si vede un volto giovane di colpo orribilmente invecchiare, rugarsi, rinsecchire.
Per fare un discorso d’amore, di solo amore, dovrei riportarmi agli anni dell’infanzia in cui la scoprivo. Partendo dal mio paese, Racalmuto, da cui comincia e prende nome l’altipiano zolfifero. E tutto allora era circonfuso, imbevuto e segnato di zolfo: c’era zolfo nella polvere delle strade, e scricchiolava vetrino sotto i passi, poiché gli asini e i carretti che lo portavano allo scalo ferroviario andavano seminandolo; l’aria, ad ogni soffio di vento, si intrideva dell’odore gradevolmente acre, che stuzzicava e a volte strizzava i polmoni, dello zolfo in combustione nei forni che dall’ingegnere che li aveva inventati si chiamavano Gil; gli argenti si imbrunivano e iridavano; i vestiti, il sudore, l’acqua con cui ci si lavava e con cui si cuoceva, sapevano di zolfo; e spesso si mangiavano le sarde salate cotte nello zolfo fuso (tenendole per la coda si mettevano un momento dentro lo zolfo liquido – terribili le scottature – poi si tiravano fuori, e subito lo zolfo si rapprendeva, sicché bisognava poi sbriciolare la crosta gialla ed estrarne la sarda, gustosissima), le melanzane, il capretto. La prima volta che andai ad Agrigento (allora Girgenti), al ritorno scoprii che non dovunque l’aria sapeva di zolfo, e l’acqua, e i frutti. Ma mi piaceva tutto del mio paese, e ancora nel ricordo mi piace. C’era un castello che i Chiaramonte avevano edificato e un prete intraprendente stava trasformando in case d’abitazione: dentro il paese, al margine di uno spiazzale che pareva vastissimo ai nostri giuochi (a rivederlo ho l’impressione si sia contratto, rimpicciolito). E c’era un altro castello sulla montagna che domina il paese: più piccolo, e perciò chiamato il castelluccio (a rovinarlo, si è lasciato fare alla natura). C’erano chiese che mi parevano bellissime e un teatro che ancora mi pare bello. E c’era gente straordinaria, zolfatari e contadini, artigiani, donne che facevano del paese intero come un telaio in cui confidenze e maldicenze erano per me trame di racconti, erano il paese raccontato, erano tout court il racconto. Le botteghe dei barbieri erano accademie di chitarra e mandolino; e vi si concordavano le serenate che poi, tra sonno e veglia, sentivo affiorare dalla notte, come se appartenessero alla notte serena, alla quiete lunare: incantevolmente. E c’erano i giuochi, dei piccoli e dei grandi; c’erano le domeniche (e i sabati, allora celebrati da un canto che diceva: «lu sabatu si chiama allegracori, biatu cu havi bedda la muglieri», il sabato si chiama allegracuore, beato chi ha una bella moglie); c’erano le feste paganamente erompenti, le fiere che parevano ricchissime e offrivano le cose necessarie felicemente, mentre oggi tristemente i grandi magazzini offrono il superfluo. La gente cantava: cantavano le donne mentre sfaccendavano, gli zolfatari che andavano al lavoro all’alba, i contadini sull’ambio dei muli; e oggi nessuno più canta, e tutti vanno con la radiola a transistor incollata all’orecchio. Senz’altro ha ragione Pasolini: si era allora più felici, c’erano allora più cose; cose vere, cose che si amavano. Oggi, quando arrivo alla stazione e invariabilmente domando: «Come va il paese?», invariabilmente il vecchio autista (che ha la patente numero 5 della provincia) mi risponde: «Come vuole che vada? È una pietra in un pozzo».
Una pietra in un pozzo. Ma è la pietra che era: le strade, le case, le chiese sono com’erano quarant’anni fa. Soltanto un po’ più vecchie. Le case nuove crescono fuori, dove prima erano mandorleti e vigne. E così è in quasi tutti i paesi della Sicilia. Anche Agrigento, nonostante l’orrendo sipario di case nuove che la chiude alla valle, al mare, si conserva come era, in tutte quelle stradette che si arrampicano verso la cattedrale: la Girgenti di Pirandello.
Il mio primo viaggio è stato a Girgenti. Ne avevo sentito sempre parlare come di un luogo in cui i fascisti litigavano tra loro (così come poi, tra loro, i democristiani); in cui c’era una violenta festa dedicata a san Calogero, con lancio di pani contro la statua del santo; dove era nato uno scrittore delle cui cose folli tutta l’Italia e tutto il mondo parlava: Luigi Pirandello, di una famiglia che si era arricchita e rovinata con gli zolfi. In una zolfara dei Pirandello, ad Aragona (quella de I vecchi e i giovani), aveva lavorato da capomastro uno zio di mio padre.
Di Girgenti si diceva che era brutta, dei girgentani che erano tremendamente inospitali. Ma tutti i paesi siciliani detestano le città capoluogo: il capoluogo è la prefettura, la questura, la Corte d’assise, il catasto, il carcere, l’ospedale psichiatrico. A me, a sei anni, Girgenti parve non dico bella, ma misteriosa, da scoprire. E poi, affacciandomi ai balconi di un albergo che non c’è più, c’era la vallata piena di cose antiche, tutte di splendida pietra arenaria. Non mi impressionavano molto, se non per il colore e la mole. Più mi interessava il paese, quei vicoli che rampavano verso la cattedrale. E la cattedrale col soffitto di travi dipinte, il reliquiario d’argento di san Gerlando, la lettera del Diavolo. Fortissima impressione, a scoprire che il Diavolo sapesse scrivere e che quella lettera a tutti indecifrabile l’avesse scritta proprio lui. So ora che la lettera era diretta a suor Maria Crocifissa, benedettina nel monastero di Palma: la beata Corbera del Gattopardo. Povero Diavolo, a cozzare contro suor Maria Crocifissa.
Quando più tardi, verso i quattordici anni, cominciai a leggere Pirandello dalle novelle, tutto mi si svolgeva nella Girgenti che ricordavo da quel primo viaggio: anche quando Pirandello nemmeno accennava ai luoghi; e quando vidi Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier, con quell’indimenticabile Ivan Mosjoukine (che fu poi Casanova), la quasi totale mancanza di esterni mi diede la suggestione che dietro ci fosse la Girgenti che avevo conosciuto, che conoscevo. Che ancora oggi si può ritrovare. Il mio secondo viaggio fu a Palermo, a dieci anni. Avevo malamente finito le scuole elementari per la malaria che mi ero presa e che per tutto un anno, a giorni alterni, mi aveva inchiodato a una febbre delirante. Ero dunque convalescente: e perciò le sensazioni mi si incidevano acutamente, indelebilmente. L’odore di frittura dei quartieri popolari; l’odore di limoni, alghe, polipo bollito e pesce fresco dei mercati; l’odore di gelsomini di via della Libertà. Le cupole rosse di san Giovanni degli Eremiti e di san Cataldo, le palme, la pietra del palazzo dei Normanni, gli stucchi barocchi, i mosaici, i ferri battuti del liberty. E la meraviglia delle strade dritte. Ma lo stupore più grande lo ebbi al palazzo dei Normanni: il soffitto della Palatina, i mosaici della sala di re Ruggero (gli animali soprattutto), la sala dei vicerè con quei ritratti intorno a grandezza naturale. Mi colpiva il gesto d’imperio in cui erano stati ritratti alcuni, il contrasto che c’era in altri tra la decadenza fisica e l’autorità e ricchezza di cui erano vestiti e circondati. Non so se perché allora se ne parlasse, ché volevano rimetterla o l’avevano già rimessa, o forse perché avevo letto qualcosa sui vicerè che condannavano o facevano grazia, ma dentro quella sala mi assalì angoscioso il pensiero della pena di morte: e ancora oggi, appena vi metto piede, automaticamente mi scatta quel pensiero.
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