Alfondo Berardinelli, Il Sole 24 Ore 17/11/2013, 17 novembre 2013
GRUPPO 63 A PASSO DI GAMBERO
Su questioni e definizioni come quelle di «avanguardia» e «sperimentalismo» in letteratura, è stato detto tutto, si sa già tutto, si potrebbe essere abbondantemente d’accordo. Invece ogni volta, volendo, si ricomincia a litigare.
Lo dimostra il volume doppio Il romanzo sperimentale (1965 a cura di Nanni Balestrini) seguito da Col senno di poi (2013 a cura di Andrea Cortellessa). Gli autori dibattenti sono diverse decine: prima quelli del Gruppo 63 al convegno di Palermo 1965, ora scrittori e critici più giovani o non più giovani, da Romano Luperini, Franco Cordelli, Giulio Ferroni, Giorgio Patrizi, Francesco Muzzioli, Filippo La Porta, fino a Emanuele Trevi, Domenico Scarpa, Raffaele Donnarumma, Gianluigi Simonetti, Nicola Lagioia. Ero stato invitato da Cortellessa a intervenire nel libro, ma non potevo. Così ora mi diverto a leggerlo.
In verità, pensavo di annoiarmi. Invece trovo che il volume, per chi ha avuto in sorte di occuparsi di queste cose, è interessante e divertente. È un libro, appunto, in cui quasi tutti litigano, anche quando cercano un punto di accordo, o invece cercano di litigare pur essendo più o meno d’accordo. Succedeva già a Palermo nel 1965. A soli due anni dalla costituzione del Gruppo 63, il detto gruppo, almeno a porte chiuse, funzionava poco. Perché? Rivalità malcelate a parte, le ragioni e i vantaggi del mettersi insieme e fare squadra c’erano eccome. Una squadra è sempre più forte e minacciosa di un individuo. E poi la creazione di un clima generazionale favoriva la nascita di nuove identità di scrittore e di intellettuale, incoraggiava una libertà e spregiudicatezza di invenzione e discussione che altrove non c’era.
Solo che i presupposti, diciamo ideologici o teorici, erano eterogenei e instabili, nonostante una certa spavalderia teoricizzante, da studenti che hanno appena superato gli esami a pieni voti (gli insuperabili e un po’ sproloquianti Sanguineti, Arbasino, Eco). Quando si passò dalla poesia a occuparsi di romanzo, ecco i malintesi, la confusione, la difficoltà di capirsi, i gusti e le preferenze personali. In poesia quasi tutto è permesso perché pochi ti leggono e pochi si scandalizzano di quello che combini. Ma con il romanzo è un’altra cosa. Chi parla di romanzo parla di lettori, parla di pubblico, di visione del mondo, di storia, ambienti, personaggi, e questo complica la vita di ogni avanguardia. Non sarà un caso se si scelse di dire «romanzo sperimentale» e non «romanzo d’avanguardia». Sembra una sfumatura da niente, ma l’essenziale è già lì. Il Gruppo 63, lo dicevano anche loro, era un’avanguardia «debole». All’inizio del Novecento, l’avanguardia era stata un’idea precisa e questa precisione, almeno per alcuni anni, la faceva funzionare. Ma le formazioni settarie precise, come il futurismo e il surrealismo, dotate di un leader indiscusso e di un manifesto battezzato «manifesto», se sono forti in quanto rigide, rischiano anche di rompersi. Le avanguardie della seconda metà del Novecento, definibili «postmoderne», più che avanguardie precisamente ideologiche e tecniche sono gruppi di solidarietà e mutuo soccorso (Gruppo 47, Wiener Gruppe, Beat generation, École du regard, Gruppo 63). A porte chiuse possono litigare, ma se attaccano o si difendono allo scoperto, anche dopo decenni, fanno subito schiera, non c’è verso che qualcuno di loro si azzardi a esercitare la critica nei confronti dell’altro. Si capisce, è molto umano: sono stati complici e quindi sono amici. Hanno un passato comune da difendere.
Finché si trattò di poesia, i cinque «Novissimi» (Giuliani, Pagliarani, Sanguineti, Porta e Balestrini) furono subito presi in blocco e messi tutti e cinque nelle antologie scolastiche. Sembravano un’avanguardia. Ma si intuì presto che dire «romanzo d’avanguardia» era un controsenso.
L’avanguardia è bellica e ascetica, rompe i rapporti con il pubblico (borghese, farisaico) che vuole riconoscere subito la merce letteraria che compra. Il romanzo invece è per definizione il genere letterario che ha creato fin dalle origini un moderno vasto pubblico di lettori. Anche ingaggiando battaglia, più che «d’avanguardia», fu prudente chiamarlo «romanzo sperimentale». I grandi presupposti erano chiari: Proust, Pirandello, Joyce, Svevo, Kafka, Musil, Céline, Faulkner…
A questo punto cominciano i guai. Il primo guaio è che ognuno di questi autori era stato un solitario caso a sé. Nessun gruppo, nessuna battaglia, e perfino, a volte, una certa dose di autolesionismo. Definire d’avanguardia Proust o Svevo o Kafka o Gadda fa ridere. È certo che sperimentarono, questo sì. Il secondo guaio è che il romanzo è stato sperimentale da quando esiste, con Cervantes, Defoe, Sterne, Diderot, Stendhal, Balzac, Melville, Dostoevskij, e perfino Tolstoj e Zola (che ha inventato la nozione di romanzo sperimentale insieme alla nozione di naturalismo). Il terzo guaio è che si può sperimentare in vari modi, a vari livelli, o anche a un solo livello, che però cambierà il senso di tutti gli altri: personaggio, vicenda, stile, struttura, intreccio…
Quando un’invenzione viene riusata e replicata finisce che diventa prevedibile, invecchia, offre modelli ready made immediatamente riconoscibili, buoni per la letteratura di consumo e di routine. Allora qualcuno ricomincia a fare esperimenti nuovi. Ma i gruppi e le schiere c’entrano poco. Dieci anni dopo il 1965, si è visto che gli esperimenti più sorprendenti e diversamente scandalosi nel romanzo sono stati fatti da Paolo Volponi con Corporale (linguisticamente magmatico e strutturalmente franante: infatti ha respinto il pubblico) e da Elsa Morante con La Storia (romanzo che riusa schemi di realismo popolare per denunciare moralmente l’autorità terroristica dell’idea di storia). La Storia fu un bestseller e per questo fu preso di mira ferocemente da avanguardisti politici e letterari, da formalisti come Balestrini e da marxisti come Cesare Cases. Ma Umberto Eco, l’uomo più pratico e furbo della cultura italiana, non si scandalizzò, capì che era arrivato il suo momento: bisognava fare il bestseller popolare per il nuovo "popolo" planetario acculturato e smaliziato. Si mise al lavoro e confezionò Il nome della rosa, esperimento riuscito in cui si celebrano le nozze fra cultura universitaria e cultura di massa. Conquistò il pubblico ma non influenzò nessuno scrittore delle generazioni successive. Ora è lì a godersi, in aurea solitudine, gli indubbi incassi e la discutibile gloria.