Zerlina, Il Sole 24 Ore 17/11/2013, 17 novembre 2013
TU SCRIVI, IO SBADIGLIO
Tra le cose universalmente riconosciute come le più fastidiose al mondo, si annoverano: le calze umide, il rotolo di carta igienica esaurito e i romanzi scritti in seconda persona singolare. Adesso sta a voi indovinare a quale di queste tre categorie appartenga l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, Il bordo vertiginoso delle cose, Rizzoli. «Adesso dove vai? Hai una meta? Hai un obiettivo, qualcuno da incontrare? Perché sei venuto qua? Conosci qualcuno, in questa città?», il "tu" carofigliano, più che la voce di un narratore esterno ma coinvolto empaticamente, assomiglia a un Superio bulimico e irrefrenabile, oltreché didascalico («la telefonata con tuo fratello ti ha confuso ulteriormente») e parecchio invadente («potresti smetterla di dire stupidaggini, anche se stai solo parlando con te stesso»).
Non pago di cotanto esercizio di stile, Gianrico decide di inframmezzare le parole del narratore impiccione con pagine raccontate in prima persona dal protagonista Enrico. Così, l’impavido lettore, si ritrova tra due fuochi, deve districarsi tra il tu e l’io, operazione che in realtà non comporta alcuno sforzo d’attenzione, dal momento che entrambe le sezioni sono farcite con la stessa glassa zuccherina: quella autocommiserazione, quella falsa modestia, quella boria malcelata che impregna l’animo del narratore e del protagonista, tanto che verrebbe da pensare che dietro di loro si nasconda la medesima persona. Oh santo cielo, ma in effetti è così!
Carofiglio dimentica l’intreccio narrativo e opta per l’ennesima indulgenza autobiografica; la statica vicenda si avvale di un pretesto mal congegnato (la morte di un amico di infanzia) che spinge l’eroe del romanzo – uno scrittore talentuoso in crisi, talmente strepitoso che il mondo non si rassegna alla sua interrotta e probabilmente degna di Nobel proliferazione letteraria – a tornare nella sua città natale e scontrarsi coi fantasmi di una vita.
E se vi state chiedendo dove abbiate già sentito una storia simile, non crucciatevi troppo, giacché la risposta è: ovunque, in qualsiasi romanzo vi sia capitato per sbaglio tra le mani negli ultimi centocinquant’anni.
Per rendere il tutto più appassionante, Carofiglio aggiunge una bella dose di violenza spiccia: date le cattive frequentazioni, il giovane Enrico si è ritrovato in un brutto giro e ha imparato presto a fare a botte, lasciando emergere un lato oscuro della sua fragile personalità («una creatura sconosciuta in agguato nella penombra»), cui, da adulto, ripensa con orrore: «quei pugni in faccia mi avevano fatto intuire una parte di me cui non mi piaceva pensare». Figurati a noi.
Chiudiamo con una chicca; innamorato, manco a dirlo, della prof del liceo, il giovane Enrico la descrive così: «soffiò l’aria da un angolo della bocca per spostare i capelli dall’occhio, mi spezzò il cuore e poi cominciò a leggere». Ora, a parte l’originalità squisita del l’aneddoto, è bene chiarire un concetto una volta per tutte: nessuno è in grado di farlo. Nessuno sa soffiare da un angolo della bocca e sistemarsi l’acconciatura. A prescindere che sia sexy o patetico: semplicemente non è possibile. A meno di sortire sulla chioma un immediato effetto cotonatura anni 80, o di ricoprire gli astanti di saliva.