Fabio Volo, La Lettura, Corriere della Sera 17/11/2013, 17 novembre 2013
I MIEI LIBRI , COME BROCCOLETTI NELL’ANIMA
Una volta una persona mi disse che io raccontavo la vita di quelle case in cui si sente odore di broccoletti. Non ho mai capito se fosse un complimento, una constatazione o se in qualche modo stesse cercando di offendermi. Qualsiasi fosse l’intenzione, aveva ragione. Quando ero piccolo, l’inverno, dopo aver giocato tutto il giorno, tornando a casa per la cena, entrato nel condominio, venivo investito dai vapori delle famiglie: broccoletti e minestrone.
Non abito più in quella casa, la mia curiosità mi ha portato altrove, a conoscere il mondo. Eppure io quell’odore lo riconosco ancora, fa parte di me, mi appartiene così tanto che ogni volta che mi siedo al tavolo per scrivere mi entra nelle narici, anche se in quel momento il protagonista della mia storia sta facendo una romantica passeggiata a New York. È un odore che si intrufola tra le pagine e i personaggi, nello spazio tra due parole, che sale su per le righe con la stessa leggerezza con cui io da piccolo correvo per le scale all’ora di cena. Insomma, da sempre scrivo di broccoletti.
Per qualcuno è un odore sgradevole, poco elegante, per nulla raffinato. Altri non lo conoscono affatto, altri ne parlano solo astrattamente. Chi invece lo conosce, e non sono pochi, può ben capirmi. Forse è per questo che un giorno ho iniziato a scrivere. Forse è questo il motore di tutto: scrivo per ritrovare le famiglie di quel condominio, per ritrovare la mia, e il bambino che ero, quello che, affamato, aggrappandosi al corrimano, saliva due gradini alla volta. Scrivo per ritrovare dentro di me quella vita passata, la luce accesa della cucina che vedevo già dalla strada e accelerava il passo, e l’acquolina in bocca, perché sapevo che mia madre era ai fornelli, che mio padre era tornato dal lavoro ed era in bagno a lavarsi e che la tavola era già apparecchiata.
Io non scrivo di quelle famiglie «perché sono uno di loro», o perché «sono come loro», scrivo di quelle famiglie perché «sono loro ad essere come me». Quelle persone sono le stesse che incontro quando giro per le città a presentare il mio libro. Davanti a me ritrovo signore come mia madre, mariti timidi come lo era mio padre. Ci sono coppie giovani con il bambino piccolo nel passeggino. Ci sono nonni, ragazzi impacciati, emozionati o dalla battuta pronta fatta col desiderio di essere ricordati. Qualche volta mi è accaduto di autografare le pagine a suore e preti. Vengono professionisti usciti dall’ufficio ancora incravattati, artigiani, commercianti, operai. Laureati e diplomati, o chi ha solamente la terza media. Qualcuno mi dice, come fosse una confessione, che lavora da quando ha quattordici anni. Alcuni di loro conservano un pudore sempre più raro da trovare, un pudore che riconosco subito perché era quello che faceva dire a mia madre di sollevare la sedia per non disturbare i vicini del piano di sotto.
A questi incontri noi chiacchieriamo, ci sono domande anche di vita privata. Io non sono in cattedra, non pontifico, non sono lì per insegnare ma per interagire e condividere. Quelle persone non sono una community, io non ho mai avuto un fan club. Sono persone diverse tra loro, che spesso non si frequentano nemmeno sui social network. Spuntano all’improvviso, non so neppure da dove. Non indossano la stessa maglietta. Non hanno divise. Né quel tipo di scarpe o quel modello di giacca. Sono indefinibili. Quasi tutti però hanno in mano un libro, e per loro quel libro è semplicemente «un libro»: un oggetto di carta con una storia dentro. Non un totem, un arnese sacro o il simbolo inviolabile di una identità culturale. Dobbiamo vergognarci?
Quando sono a Londra o a New York, magari in metropolitana, vedo intorno a me gente leggere Ken Follett. Altri, divorare un fantasy. Altri ancora persi tra le Cinquanta sfumature , e qualcuno leggere l’ultimo libro di Philip Roth. Nessuno si sognerebbe mai di dire chi è un vero lettore tra loro, stilare una classifica, tracciare una linea tra arte e intrattenimento, degno o non degno, mettere in discussione la libertà di entrare in una libreria e comprare quello che più aggrada. Non sarebbe nemmeno pensabile. Poi, quando torno in Italia, ripiombo nell’eterno mistero per cui un libro debba essere valutato con lo stesso metro con cui si giudica Dostoevskij: l’eterno mistero per cui si è obbligati a scegliere tra Checco Zalone o La vita di Adele come se non si potesse vederli entrambi senza esserne per forza contaminati.
Mentre noi dobbiamo ancora fare pace con l’«intrattenimento», il mondo si chiede se il libro sia ancora la migliore forma di «letteratura», il mezzo più completo e «popolare» per raccontare la vita senza compiacimenti. Io come altri mi sto convincendo che oggi nulla sia al livello, per esempio, delle serie televisive, soprattutto americane. Sono le serie televisive a narrare con coraggio la realtà, a definire le cose per quello che sono. Come molti altri, divoro puntate di Breaking Bad , Shameless e Mad Men con la stessa avidità con cui da ragazzino leggevo i libri in camera mia. I protagonisti di queste serie li amo, e un secondo dopo li detesto perché mi riconosco nelle loro debolezze e nelle loro meschinità. Riescono ad essere eroi e antieroi nel tempo di un cambio di espressione.
Ecco. Io lì vorrei arrivare. A immaginare e scrivere quei personaggi. Raccontarli senza giudicarli, senza seguire una morale. O anche solo a godermeli nella tivù del mio Paese. Lì dove invece domina ancora la figura del carabiniere buono che la sera uscendo dalla caserma prima di andare a casa passa a rassicurare la vecchietta scippata dall’uomo cattivo mentre era andata a ritirare la pensione alle poste.
Nel nostro Paese c’è una strana gara all’insuccesso: ho scritto un libro che non ha venduto perché il pubblico non mi capisce, non è all’altezza . Un alibi perfetto che riduce il successo a una forma di tradimento, all’aver ceduto alle lusinghe del pubblico, alla gente, ai grandi numeri. Si è venduto, commercializzato, abbassato. Io in realtà questo atteggiamento lo percepisco solamente come l’espressione di un totale disamore per gli altri.
Se è vero che quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito, io per un istante vorrei essere quello stolto (fatemelo fare, mi viene bene). Vorrei concentrarmi su quel dito. Quel dito che, rigido, indica, giudica e comanda. Perché forse è in quel dito che si annida il problema, è lì che si concentra. Forse sbaglio. Anzi, vi dirò di più: sento che il clima sta cambiando. Di recente vedo pubblicate analisi e riflessioni che sembrerebbero annunciare un nuovo periodo. Su «La Stampa», giorni addietro, è uscita una «fenomenologia bonaria» di Barbara D’Urso scritta da Walter Siti. E l’ultimo libro di Francesco Piccolo invita ad «accogliere» la nostra epoca, senza arroccamenti sul passato. Sono solo alcuni esempi di un’atmosfera che, forse perché stiamo assistendo alla fine di un’epoca che ha sfiancato e spossato tutti, sembra invitare all’ascolto e all’attenzione anche verso autori e pubblici meno affini. Magari mi sbaglio, ma mi sembra che lentamente qualcuno stia cercando di superare quella linea immaginaria, quel discrimine tra un’Italia giusta e una sbagliata, tra i buoni e i cattivi, tra i Guelfi e i Ghibellini. Me lo auguro.
Credetemi non lo dico per me (anzi in questi anni quel dito contro mi ha rafforzato pubblicamente e privatamente) ma me lo auguro per questo Paese, un Paese stanco e ferito, che ha necessità di emanciparsi. Mi auguro, insomma, che si torni al confronto vero, e che lo si faccia al più presto. Anche tra «acculturati» e «intrattenitori», tra intellettuali e broccoletti, e che la critica (anche la più severa) sia depurata dalla tossicità dell’odio. Nella speranza che questo senso di apertura che si avverte non sia l’ennesima ricerca di nuovi consensi. La sfumatura è sottile, ma è in quella che ci giochiamo la volontà di andare oltre.