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 2013  novembre 17 Domenica calendario

MANCANO LE PROVE COME PER PALME: NON È UN CASO MATTEI


[Henning Mankell]

Scrittore molto prolifico (dodici libri con protagonista il commissario Kurt Wallander più una trentina di romanzi), autore di testi teatrali e regista, fondatore del Teatro Avenida a Maputo, in Mozambico, dove dalla metà degli anni Ottanta risiede sei mesi all’anno (gli altri sta in Svezia, a Göteborg), Henning Mankell è il capofila del poliziesco scandinavo. Oltre venti milioni di copie vendute con i suoi thriller — in Italia la serie di Wallander è pubblicata da Marsilio — Mankell è un intellettuale politicamente schierato. Vicino da giovane a movimenti extraparlamentari di sinistra, nei suoi primi soggiorni in Africa aiutò i movimenti anti-apartheid contro il regime di Pretoria. Filopalestinese, nel maggio 2010 era a bordo di un’imbarcazione della Freedom Flotilla che voleva forzare il blocco israeliano alla Striscia di Gaza. Più volte portato sugli schermi tv (nella serie della Bbc è stato interpretato da Kenneth Branagh), il commissario Wallander si era congedato dai suoi lettori nel 2009, con il romanzo Un uomo inquieto : ammalato di Alzheimer, veniva affidato a una casa di cure. Quest’anno, però, è ricomparso in La mano , che per Mankell è la sua ultima e definitiva apparizione. Mankell sarà in Italia il 13 dicembre per ricevere il Premio Raymond Chandler conferitogli dal Courmayeur Noir in Festival.
Si ricorda il giorno in cui Kennedy fu ucciso?
«Avevo quindici anni, mi ricordo che stavo tornando da scuola: per strada sentii la gente parlare della morte del presidente degli Stati Uniti. Andai a casa, non c’era nessuno a cui chiedere conferma, così accesi la radio e lì ascoltai la notizia».
Quale fu la sua prima reazione?
«Rimasi molto colpito dal fatto che l’uomo più importante del mondo potesse essere ucciso così. Rimasi sorpreso pensando che perfino lui non era al sicuro, protetto. Mi sembrò una cosa spaventosa. Credo anche di essermi chiesto che cosa poteva succedere, forse pensai con paura a una possibile guerra. Erano gli anni della guerra fredda, della contrapposizione fra russi e americani, la morte di Kennedy poteva provocare pericolose conseguenze».
Pur essendo molto giovane, era incuriosito dalla politica di Kennedy, dal programma della Nuova frontiera, dalla sua promessa di un sogno che doveva avverarsi?
«Ero poco più di un ragazzino, non seguivo la politica. Oggi dico che Kennedy non regalava un sogno ma un’illusione. Se parliamo di Kennedy non possiamo dimenticare Cuba e la spedizione della Baia dei Porci, e non possiamo dimenticare la guerra in Vietnam che cominciò sotto la sua amministrazione. Kennedy dava agli uomini l’illusione di risolvere tutto nell’American way . Ma era soltanto un’illusione».
Gli europei rimasero molto colpiti del viaggio di Kennedy a Berlino. E di quella frase, detta poco lontano dal Muro: «Ich bin ein Berliner».
«Era tutto preparato. Ho letto che Kennedy chiese a Willy Brandt, allora sindaco di Berlino Ovest: se io pronunciassi questa frase in tedesco, pensi che farei un’impressione maggiore sui berlinesi? Brandt gliela scrisse e poi passò un bel po’ di tempo a fargliela ripetere».
Sull’assassinio di Kennedy a Dallas sono fiorite infinite teorie, tutte contestano la veridicità della versione ufficiale contenuta nel Rapporto Warren, che sosteneva che a uccidere il presidente fosse stato Lee Oswald, da solo.
«Ho letto tutto il Rapporto Warren, anche se è un enorme malloppo. Capisco bene perché ha dato origine a tante discussioni. Ho visto il film di Oliver Stone, e condivido anch’io molti dubbi su quella versione. Però devo dire che sono convinto che Oswald quel giorno fosse il solo a sparare. Perché lo dico? Perché non esistono prove che autorizzino a pensare il contrario. Del resto in tutti questi anni non è mai uscito fuori nulla di concreto che provasse una verità diversa dal Rapporto Warren. Anche nel caso della morte di Olof Palme, il primo ministro svedese ucciso il 28 febbraio 1986, non credo al complotto: mancano le prove. C’è un caso italiano, la morte dell’industriale Enrico Mattei in un incidente aereo nel 1962, su cui non sappiamo praticamente niente. Ed è possibile che non sapremo mai la verità. Però, ripeto, su Kennedy e Palme sappiamo più di quanto non sappiamo (e non sapremo) su Mattei».
Non ha mai avuto la tentazione di scrivere un romanzo sull’assassinio di Kennedy o di Palme?
«No, mai. È già stato scritto tanto, troppo. Sulla morte di Kennedy ho letto tantissimi libri, romanzi e non. Ellroy e tanti altri, alcuni molto interessanti. Ma scriverne, no, non ci ho mai pensato, non è proprio il caso».
Kennedy si presentava giovane, bello, affascinante, con una bella moglie, e tante donne, fra cui Marilyn: era l’immagine di un uomo molto diverso dal suo grigio predecessore Eisenhower.
«L’immagine, appunto. Ma c’è una frase di Balzac che io tengo a mente: dietro ogni grande fortuna c’è un crimine. Questo per dire che non si deve dimenticare che dietro Jfk c’era suo padre, Joseph, un uomo molto ricco. Si era arricchito con avventurose speculazioni in borsa prima del ‘29, durante il proibizionismo raccontano che facesse contrabbando di alcolici. Quando fu nominato ambasciatore a Londra, manifestò una pericolosa simpatia per Hitler e la Germania nazista. Era un gangster. Ma era anche un uomo molto stupido: nella sua vita ha commesso molte stupidaggini. I figli John e Robert l’intelligenza l’hanno presa dalla madre Rose».
Oggi, cinquant’anni dopo Dallas, ci si interroga sull’eredità di Kennedy, su che cosa ci ha lasciato.
«Molto poco, niente direi. Intanto perché non è stato presidente per lungo tempo, nemmeno tre anni. Nel bene o nel male, altri presidenti hanno lasciato un segno molto più forte di lui: Johnson, Nixon, Reagan. Per quel che riguarda la lotta alla discriminazione razziale, Johnson ha fatto molto di più. Per me Kennedy è stato il presidente più insignificante della storia recente. Dava molte illusioni, in realtà non faceva un granché. Era un uomo di molte parole e di pochi fatti».
L’elezione di Obama è stata salutata come un frutto dell’eredità di Kennedy. Si è parlato spesso di somiglianza fra i loro programmi, e il loro modo di presentarsi. Anche lui, prima delle elezioni, fece un viaggio a Berlino. Che cosa pensa di Obama?
«La cosa più importante, quella per cui passerà alla storia, è il fatto che sia stato il primo afro-americano a divenire presidente degli Stati Uniti. Come presidente, però, è stato ed è molto debole. E ha fallito in tutto quello che ha cercato di fare».