Sara Gandolfi, Corriere della Sera 17/11/2013, 17 novembre 2013
HENNA, IN FUGA DALLA STRADA «LA VITA DOPO L’INFERNO»
Piange Henna, alla fine. In silenzio, quasi di soppiatto. Strofina via le lacrime dagli zigomi, con le sue grandi mani. Non vuole crollare, mostrarsi debole. Non l’ha fatto, forse, neppure quando i clienti «mi caricavano, facevano tutto quello che volevano su di me e poi mi buttavano fuori dall’auto, senza pagare, a decine di chilometri dal mio posto di lavoro». Lo chiama ancora così, «il posto di lavoro», anche se laggiù, su quella provinciale in mezzo ai campi, nell’hinterland milanese, non ci va più da qualche anno. È fuori dal giro. «Non ho più paura», dice. Non basta. «Non mi fido di nessuno», sussurra poco dopo, piantandoti quegli occhi neri addosso, gonfi di dolore e vuoti di speranza, mentre il suo sguardo ferito dice tutto il contrario: «Voglio fidarmi di te, posso raccontare».
Racconta Henna (un nome di fantasia per proteggere la sua identità), parla per quasi un’ora, seduta sul lettino della casa d’accoglienza dove sta cercando di cominciare una vita tutta nuova, assieme al suo bambino paffuto e dolce di due anni, che non si staccherebbe mai da lei. «Oggi sto bene. Sono in regola, faccio la cameriera in un bar, voglio farmi una famiglia col papà del mio bambino, nigeriano come me».
Come sei arrivata fin qui?
«Avevo 21 anni. A Benin City frequentavo una scuola da cuoca. Eravamo in sei fratelli, tre femmine e tre maschi. Gli altri sono rimasti tutti in Nigeria. Ma l’amica di mia mamma diceva che in Italia si guadagna bene. Sono partita con lei nel 2007 da Lagos, con un pullman, fino in Libia. Poi sono salita su un barcone. Eravamo in tanti. Lei diceva di star zitta, di non fare troppe domande, che dovevo fare il viaggio e nient’altro. “Taci che poi là c’è il lavoro”, diceva».
Ti ha spiegato che lavoro era?
«No».
Dove sei sbarcata?
«Sono arrivata a Lampedusa. Mi hanno messo in un centro d’accoglienza. Ero spaventata, non capivo cosa sarebbe stato di me. Poi sono venuti a prendermi (non spiega chi, ndr ) e mi hanno portato “a casa”. Due giorni di tregua e la madame mi ha detto che dovevo iniziare a lavorare. “Ah, bene, sono contenta”, dissi. Ero davvero felice, in quella casa avevo trovato altre ragazze, siamo diventate subito amiche. Al mattino ci siamo vestite. Ci hanno portato nelle campagne. C’erano delle fabbriche, ho pensato che sarei andata a lavorare dentro uno di quegli edifici. E invece... Ho chiesto “ma questo sarebbe il lavoro?”. “Sì, devi fare questo”, mi hanno risposto».
L’hai scoperto solo quando sei arrivata? Anche le altre ragazze?
«Sì, io sì. Non so le altre».
Non potevi rifiutare?
«Ho detto che volevo tornare indietro ma loro hanno risposto che non potevo: “Non hai niente, non hai documenti, neanche il passaporto, come puoi tornare?”».
Non eri partita con un passaporto?
«Io non avevo tenuto niente in mano. Quella donna teneva tutto».
Cos’hai provato?
«Ho pianto. E ho pianto ancora. Poi ho smesso, non potevo fare nulla».
È un lavoro quello della prostituta?
«No, quello non è un lavoro». Un lungo silenzio. Henna comincia, gli occhi al pavimento, a piangere piano piano.
Per quanti anni l’hai fatto?
«Quasi due».
Dove?
«In strada. In macchina». Gli occhi pieni di lacrime.
Quante ore dovevi stare in strada?
«Iniziavo alle nove del mattino fino alle 6-8 di sera. E alla fine ci riportavano a casa. Eravamo sei ragazze. Quando finivo di lavorare, stavo chiusa in casa. Non vedevo nessuno. Ero reclusa».
E tra le persone che incontravi nessuno ti ha mai chiesto come stavi? Neanche i clienti?
«No. All’inizio la madame mi ha detto: “Se un cliente ti chiede qualcosa, tu non rispondere, devi mandarlo a fanculo”. Non si deve parlare al cliente: vai dentro la macchina, fai quello che devi fare, prendi i soldi e scendi. Punto».
Si faceva tutto in macchina? Non andavi in motel, in case?
«No, sempre in macchina».
Quanti clienti avevi in media in un giorno?
«Dipende. Cinque, dieci, quindici anche. Dipende. Si lavorava di più nei giorni di festa e anche quando faceva caldo. D’estate abbiamo dormito al lavoro, quattro mesi, buttate per terra, in mezzo ai campi, con i vestiti addosso. Da lunedì mattina a domenica sera, quando finalmente andavamo a casa, per farci una doccia».
Non vi lavavate per una settimana?
«No».
Ma come erano questi clienti, gentili, violenti, cattivi?
«C’era di tutto. È successo anche che abbiano tirato fuori i coltelli. “Se non apri le gambe ti ammazzo”. E io cosa dovevo fare? Aprivo il mio corpo. Dovevo farlo. Non avevo altra scelta».
I soldi li tenevi tu?
«No. Mi avevano dato una piccola cassettina e dovevo metterli tutti lì. Io non potevo tenere niente. Dovevo pagare il debito, diceva la madame , ridarle i soldi che avevano speso per portarmi in Italia».
Non ti restava neanche qualche spicciolo, magari per comprarti un vestito?
«E dove andavo a comprare un vestito? Non conoscevo nessun posto, non potevo andare in giro».
E il cibo chi lo comprava?
«La madame ».
Quanti anni aveva?
«Quarantacinque. Ed era stata anche lei una prostituta. Poi è stata promossa».
Non è mai stata gentile con te?
«Mai. Non ci parlava quasi. Quando uscivamo al mattino lei dormiva e quando rientravamo la sera guardava la tv con il suo amico italiano. Non ci parlava se non per chiederci i soldi. Qualche volta non avevo soldi da darle, non avevo guadagnato o me li avevano rubati».
E allora?
«Mi picchiava. Con il bastone del mocio».
C’erano anche ragazze minorenni?
«Sì, ma non si dice. Quando arrivi devi sempre dire che hai qualche anno in più, sennò loro non ti prendono. Dopo di me è arrivata una ragazzina di 15 anni, e poi un’altra di sedici. Ho detto, “cosa ci siete venute a fare qui?”, e loro “lo stesso che fai tu”».
C’erano uomini nella casa?
«Solo l’uomo di madame , il suo amico italiano. Quando eravamo sulla strada era lui che la portava in macchina a controllarci».
Nella zona dove lavoravi c’erano altre donne?
«Sì, eravamo più di venti in quel posto. Sempre lo stesso».
La tua famiglia sa cosa ti è successo? Non hai mai pensato di tornare a casa?
«Magari, dopo. Adesso no. Mia mamma non c’è più. E mio papà...».
Un lungo silenzio.
Cos’è successo, Henna?
«Dopo qualche anno che lavoravo lì, ho detto basta. Il debito l’ho pagato, questo lavoro non lo voglio più fare. Sono andata via».
Non hanno cercato di fermarti?
«Sì. Loro mi hanno cercata. Poi madame ha mandato suo fratello a casa di mio padre in Africa. Lo hanno minacciato. “Tua figlia se ne è andata senza pagare il debito. Paga tu”. Lui ha rifiutato, lo hanno ammazzato». Non aggiunge altro.
E il papà del tuo bambino?
«L’ho incontrato dopo. All’inizio non sapeva nulla della mia storia. Quando gliel’ho detto ha avuto subito molta paura. Temeva che madame se la prendesse con lui. Stavamo insieme da poco quando sono rimasta incinta. È andato via».
Adesso è tornato. Vuoi bene a quest’uomo?
«Sì», ma la voce è triste, gli occhi bassi.
È difficile per un uomo accettare una storia così. Non ti fidi?
Henna non risponde.
Non ti fidi delle persone?
Scuote la testa, il suo no è solo un schiocco della bocca.
Di nessuno?
«No».
Ti senti sola?
«Sì. Non ho nessuno qui. Non ho famiglia. Non ho amici».
E ora vuoi che tuo figlio resti qui in Italia?
«Sì, voglio che cresca qui».
Gli racconterai quello che hai passato?
«Sì, quando cresce».
Esce dalla stanza. Il piccolo le corre incontro, si avvinghia al suo grande corpo morbido. Un corpo che lentamente Henna sta riconquistando.
Cosa diresti a una ragazza come eri tu prima di partire dall’Africa?
«Quando stavo nella casa madame a volte alla sera ci fotografava, diceva che dovevamo sorridere. Poi mandava le foto in Nigeria, per spingere altre ragazze a venire qua. Ci vedevano felici, pensavano che qui fosse il paradiso. A quelle ragazze voglio dire: non dovete crederci, qui c’è solo sofferenza. Qui sarete schiave. Non partite. Cercate lavoro in Nigeria, qui è peggio. Si soffre troppo».
È stata un’esperienza così dura?
«Sì».
Henna è entrata nel percorso di protezione e reinserimento sociale previsto dall’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione del ’98 (legge Bossi-Fini) e ha ottenuto un permesso temporaneo di soggiorno per motivi umanitari. È seguita dagli operatori della rete anti-tratta gestita dal Comune di Milano.
Sara Gandolfi
(4 - fine)