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 2013  novembre 17 Domenica calendario

GIOVANNI SARTORI – [LE COSE HANNO SUPERATO IL MIO PESSIMISMO SONO TRISTE E STANCO DI TUTTA QUESTA OTTUSITÀ]


Poco distante da Campo de’ Fiori abitano Giovanni Sartori e sua moglie Isabella Gherardi. Da poco sono sposi. L’ anello nuziale del professore adorna una mano venosa e fragile. Isabella è un’ artista. Il professore è ancora un po’ debilitato da una polmonite. Non ha però l’ aria stanca. È, se si può usare una parola rara di questi tempi, felice. Ma anche incazzoso. Mentre conversiamo sorseggia un bicchiere di bianco: «Sono lucido, ma è come se i ricordi non stiano sempre nell’ ordine giusto. E poi...». E poi? «Le gambe sono molli. Mi fa rabbia. Sono stato un camminatore infaticabile, uno sportivo negli anni in cui potevo consentirmelo».
Quali anni?
«Le racconto una cosa buffa. Nel periodo del culto del littorio fui incaricato di organizzare la squadra toscana di salto con gli sci. Non avevo mai visto un trampolino e non può immaginare la vertigine che si prova sul punto alto da cui si lanciano gli sciatori e la paura che li attanaglia. Con alcuni non c’ era verso di mandarli giù. Del resto, nonostante i miei improvvisati consigli, un paio di loro finirono con lo sfracellarsi, rompendosi una gamba o una spalla. E lì, su quella pista dell’ Abetone, compresi che il comando senza un’ adeguata tecnica, senza una visione pertinente, difficilmente porta al successo».
Come ha vissuto gli anni del fascismo?
«Fino al 1937, con un popolo diviso fra scetticismo e adesione, il regime non somigliava per niente al suo "gemello" tedesco. La fine invece fu dura e terribile. Ricordo le squadre nere della Repubblica di Salò: rastrellavano, torturavano e ammazzavano. A quel tempo fui richiamato alle armi e mi guardai bene dal presentarmi. Sapevo che se venivo preso sarei stato da disertore fucilato. Come accadde a due miei amici. Ero terrorizzato».
E cosa fece?
«Per un certo periodo riparai in una villa in campagna. Poi i tedeschi cominciaronoa rastrellare quella zona. Fuggii attraversoi campi rientrando a Firenze. Giunto in città, mi nascosi per alcuni mesi nella casa di uno zio. Restai lì, senza quasi mai uscire dalla stanza. I giorni passavano lenti fino a quando scoprii che in casa c’ era una biblioteca rifornita di testi filosofici. Soprattutto Croce e Gentile. E naturalmente Hegel. Non avendo di meglio, li lessi tutti. Fu così che a vent’ anni ebbi la mia iniziazione filosofica».
Parteggiava più per Croce o per Gentile?
«Per nessuno dei due. Mi sembrava che le mie idee andassero in tutt’ altra direzione. Però Gentile scriveva in un italiano bellissimo».
È curioso. In fondo è ciò che si attribuisce a Croce.
«L’ italiano di Croce è più barocco, uno stile più rotondo. Dopo il 1944 lo conobbi abbastanza bene: era un uomo, dietro l’ apparente bonomia, non privo di una certa crudeltà mentale».
Conobbe anche Gentile?
«Lo avevo intravisto che ero ragazzo. Non posso dire di averlo conosciuto. Restai però colpito dal suo omicidio».
Che cosa provò?
«Mi sembrò una cosa assurda e crudele. Lo trucidarono non lontano da casa sua, alle pendici della strada per Fiesole. Era stato sì fascista, ma il suo comportamento concreto fu generoso verso molti ebrei che aiutò a far scappare e verso parecchi intellettuali antifascisti. Tanto è vero che ancora oggi nessuno ha avuto il coraggio di attribuirsene la responsabilità. Andai alle sue esequie in Santa Croce. Fu un impulso che avrei potuto pagare gravemente».
Perché?
«Ero, credo, il solo giovane in quella chiesa deserta. Ma dietro diverse colonne c’ erano agenti in borghese che mi spiavano con sospetto. A un certo punto, all’ uscita, fui fermato da uno di loro. Pensava che fossi un partigiano. Gli spiegai che non aveva senso e che in realtà ero lì per rendere omaggio a un uomo che avevo stimato».
E che le avrebbe, indirettamente, consentito di iniziare la sua carriera accademica.
«Mi laureai nel 1946 in Scienze politiche e sociali. E poi ho vivacchiato per alcuni anni, come poteva accadere allora in un’ Italia che ancora non si capiva bene dove andasse. Nel 1950, per un colpo di fortuna - il caso ha sempre giocato un grande ruolo nella mia vita - divenni professore di Storia della filosofia e insegnai la materia fino al 1956».
Le piaceva?
«La filosofia non era nelle mie ambizioni. Quella italiana, poi, mi appariva astrusa e vecchia. Mi interessava la logica che l’ idealismo aveva distrutto. Fu una scelta culturale favorita dai vari soggiorni americani. Il primo dei quali, una borsa di post-dottorato nel 1949, mi dischiuse il mondo della scienza politica. Mi agevolò il fatto che ero quasi bilingue».
Come aveva appreso il suo inglese?
«I miei, da bambino, mi presero una nanny inglese e l’ estate venivo spedito in Inghilterra».
Famiglia borghese, dunque?
«Sì, decisamente. Mio padre dirigeva il lanificio di Stia, non lontano da Arezzo, che ora è diventato un museo dell’ arte della lana. Non ci ho mai più messo piede. Mi fa soffrire questo posto dove ho trascorso buona parte dell’ infanzia».
Cosa la turba?
«È un grumo legato alla memoria di mio padre. Durante la guerra, mentre tutti scapparono via, lui restò lì per provare a difendere la sua fabbrica e i 450 operai che vi lavoravano».
E ci riuscì?
«Riuscì a dissuadere i tedeschi che volevano far saltare l’ intero edificio. Alla fine distrussero solo i macchinari. Mio padre ne soffrì enormemente. Quella che lui aveva creato a Stia era una piccola comunità, dove tutti si conoscevano e si rispettavano».
Non ha mai pensato di seguire le orme paterne?
«Non sarei stato adatto. Non ho un buon carattere. E i cappotti preferisco indossarli più che produrli».
E il suo carattere l’ ha ostacolata nell’ insegnamento universitario?
«Direi di no, anzi, proprio durante gli anni della contestazione, quando ero preside al Cesare Alfieri, la durezza con cui trattavo il movimento studentesco ha fatto sì che la mia fosse una delle poche, se non l’ unica, università che funzionava. Il prezzo che ho pagato fu un forte logoramento personale che mi convinse ad andarmene».
In America?
«Ricevetti un’ offerta prestigiosa dall’ Università di Stanford in California. Contemporaneamente, ne ebbi una anche da Oxford che però sul piano economico prevedeva un’ offerta bassina».
Quanto bassa?
«Mi pare fossero ottomila sterline l’ anno. Andai a Stanford nella migliore facoltà di Scienze politiche di tutta l’ America. C’ erano le menti più brillanti».
C’ era anche John Rawls?
«No, credo che insegnasse ad Harvard. Però tenne da noi una lezione e decisi di andare a sentirlo. Era un pessimo parlatore. A un certo punto voltai la testa e vidi che mezzo uditorio dormiva. Però era un liberal di grande intelligenza, con una reputazione meritata. Non mi ha mai convinto la sua Teoria della giustizia, ma riconosco che quel testo fa parte della storia del pensiero. Qualcosa deve a Isaiah Berlin, che lui frequentò a Oxford».
E lei Berlin lo ha conosciuto?
«Sì. Ho appena ricevuto un premio dedicato al suo nome. La prima volta che lo vidi fu a Londra. Andai a sentire un suo speech. Non capii una parola e la cosa mi mortificò. Dopotutto ero bilingue! La verità è che parlava come una mitragliatrice e sospetto che ciò dipendesse dalla sua intelligenza rapida, così veloce che le parole non sempre ce la facevano a seguire il passo del pensiero. Siamo stati a lungo amici. Mi capitava a volte di andare a trovarlo nella sua bella casa di Oxford. Peccato che ora non possa più viaggiare».
Perché?
«Mi vede, no? Troppa stanchezza. Troppi rischi».
Le mancano gli Stati Uniti?
«Ogni tanto penso alla mia bella casa di New York, che ho conservato e che mi sono goduto. La comprai grazie anche a quello che guadagnai con lo stipendio degli anni in cui sono stato professore alla Columbia. Poi, cosa vuole, a Manhattan mi legavano i primi viaggi avventurosi fatti in transatlantico. Ero sul Saturnia quando fummo investiti da una spaventosa burrasca che durò tre o quattro giorni. Tutti i passeggeri sembravano dei morti viventi. Solo due conservarono il loro aspetto umano».
Scommetto che uno era lei.
«Sì. E l’ altro era Salvador Dalì, che credo andasse negli Stati Uniti per incontrare Walt Disney. Tutte le mattine passeggiavamo sul ponte coperto e più alto della nave. Quando la prua si inabissava, venivamo sfiorati da qualche schizzo. Sembrava una sfida tra due sopravvissuti. Camminavamo avanti e indietro. E ogni volta che ci incrociavamo, senza parlarci, lui si levava il cappello e io facevo un leggero inchino. Arrivammo a New York con tre giorni di ritardo. È una città che ho adorato e che mi ha offerto moltissimo».
Cosa le ha dato?
«La bellezza e i privilegi che derivavano dal mio insegnamento. Avevo tutti i pennacchi e i dobloni del potere».
Sono così importanti per lei i soldi?
«Finché ne ho, non sono importanti. Mi piace vivere comodamente. È chiaro che se mi venissero a mancare, sarei un po’ inquieto. L’ età che ho raggiunto non mi consentirebbe di ricominciare. Diciamo che mi è andata bene. Ho perfino conosciuto e frequentato tre Presidenti».
Chi erano?
«Jimmy Carter, un maniaco della precisione. Noiosissimo. Ronald Reagan, di cui sono stato amico. Era di una rozzezza assoluta, ma dotato di un senso comune straordinario. Sapeva per istinto cosa andasse fatto o no. La moglie Nancy consultava spesso i chiromanti e Ronald, nonostante facesse di testa sua, aveva tra le fonti di informazioni anche un manipolo di maghi. Bush senior lo conobbi quando era vicepresidente. Di lui dicevano che era un eterno secondo. In realtà, conosceva come pochi la macchina militare ed economica».
Cos’ è il potere?
«Far fare a un altro quello che altrimenti, di sua iniziativa, non farebbe».
E la democrazia, alla quale lei ha dedicato la sua vita di studioso?
«Mi sta ancora bene la distinzione che Berlin faceva tra democrazia negativa e positiva».
Traduca.
«La democrazia negativa è quella che difende l’ individuo dai soprusi del potere, è l’ habeas corpus. La democrazia positiva travolge se stessa perché scavalca le strutture costituzionali e a un certo momento diventa demagogia populistica. La gente ha perso le capacità astrattive. Capisce solo quello che vede. È la deriva televisiva, con le sue deformazioni e omissioni».
È il passaggio dall’ homo sapiens all’ homo videns.
«Sull’ argomento ho scritto un libro che è stato anche un successo internazionale. Ci siamo ridotti a questo: se di una cosa non abbiamo l’ immagine, quella cosa non esiste».
Si sente deluso per come sono andate le cose?
«Le cose hanno superato il mio pessimismo».
E il suo tratto pestifero cosa suggerisce?
«Che c’ è di peggio al mondo. Non mi sono mai vergognato di essere stato duro e critico. E non credo che dovrò renderne conto lassù».
Il suo rapporto con la fede?
«Niente di particolare. Salvo il fatto di ritenere la Chiesa responsabile, con il suo avallo alla proliferazione incontrollata, di una delle possibili cause della catastrofe del mondo».
E la fede individuale?
«Non sono credente, né religioso. Ma neppure un mangiapreti. Ci sono pretini di campagna straordinari. Sono favorevole alla piccola chiesa e contrario alla casta, cioè alla curia».
Viviamo cambiamenti epocali?
«Quelli a cui assistiamo sono certamente nuovi. Abbiamo abolito le guerre, ma oggi la salvezza si gioca sulla difesa climatica. Guardi cosa è accaduto nelle Filippine con i tifoni che corrono a velocità superiori ai 350 chilometri all’ ora!».
La rattrista l’ ottusità con cui si affrontano certi problemi?
«Mi rattrista e mi stanca. Ed è una stanchezza aggravata, a livello personale, da due polmoniti e tre mesi di antibiotici. Ospedalizzato due volte. L’ età non aiuta».
Come l’ ha presa, intendo la polmonite?
«Virale. Da più di trent’ anni ho un enfisema, ma non mi ha mai dato noia. Ora sono sempre a casa e assumo ossigeno la notte».
Dorme bene?
«Dormo poco e con l’ ausilio dei sonniferi. È la vecchiaia».
Cosa le provoca?
«Sorpresa, non mi aspettavo di arrivare a questa veneranda età. Ho la fortuna di aver trovato una compagna straordinaria che amo e che ho sposato».
Non la spaventa la differenza di età?
«Semmai la considero un privilegio. Anche in questo sono stato fortunato».