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 2013  novembre 17 Domenica calendario

RITA PAVONE


La locandina è lì, visibile a chiunque con un minimo di ricerca. È del 7 marzo 1965 ed elenca gli ospiti della puntata dell’Ed Sullivan Show, rete televisiva Cbs, alle otto di sera, mezza America in visione: «C’era Duke Ellington, subito sotto c’era Ella Fitzgerald e più sotto ancora ci sono io, ovvero Rita Pavone». Andava così, e pur ingigantendo un po’, una cosa del genere la racconti a tutti anche mezzo secolo dopo. E soprattutto chiedi rispetto per quella storia, che portò la ragazza celebrata in patria per cose tipo Pappa al Pomodoro e Partita di Pallone (guai a chi le tocca, s’intende, un sacco di lettere P come lei, Pavone) a girare il mondo e a costruire ricordi non proprio alla portata di chiunque. «Da ragazzina a Torino le mie coetanee, ma proprio quelle più trasgressive, tolleravano al massimo Natalino Otto. Io ascoltavo Sinatra e quelli come Sinatra. Lo potevo fare grazie a un amico di mio padre che viaggiava spesso verso Oltreoceano e mi portava i dischi che facevano davvero impazzire gli americani».
Nasce tutto lì, appunto a Torino, con il padre alla Fiat in quella che tecnicamente era la perfetta famiglia torinese con lavoro alla Fiat. E poi evolve in una storia pazzesca, che si divide tra i successi internazionali, versioni multilingue di ogni canzone di successo e i lacci e lacciuoli del paesone Italia, che alla ragazzina con androginia evidente regalò una popolarità assoluta, quella vera, dei tempi, con le apparizioni sull’unico canale tv da venti milioni di spettatori a botta: ma che non le perdonò nulla.
Rita Pavone è tornata in circolazione dagli esili dorati della Svizzera e di Maiorca, ha passato guai con la salute, si è ripresa e ora ha coronato un sogno definitivo, ovvero il disco della vita: «È quello che avrei voluto fare dall’inizio, se non fossi finita subito, da ragazzina, nel meccanismo del grande successo di pubblico in Italia, con la televisione, le canzoni, i tanti dischi venduti e soprattutto quell’immagine, un personaggio che non mi piace granché ricordare come unica cosa forte della mia vita, anzi». Ed ecco così un doppio cd, Masters, che sta ricevendo critiche sontuose e inattese: un pugno di standard americani ma senza piacionismi — nessun pezzo strafamoso e acchiappapubblico ma brandelli magici di soul, swing, pop: autori come Bacharach, Hoagy Carmichael, Bobby Darin, Libby Holden. Trattasi di autentico sfizio, al punto da dire, come ha detto: «Voglio il meglio e lo voglio come una volta. A me va benissimo che oggi con il computer si possa fare tutto con la musica, ma ci tenevo tanto a lavorare, cantare e suonare come si faceva una volta: anche perché se non ci riuscivo così non avrebbe avuto senso un’operazione simile». Un disco sorprendente, ma tanto, tirando fuori quella voce assurda per potenza e grinta. Ovvero, lo sfizio riuscito. Avercene.
In realtà succedeva ed è successo di tutto, attorno a lei e al suo successo spaziale, al tempo: «Tutti i problemi, quelli che hanno portato alla fine dell’epoca d’oro, sono arrivati col matrimonio». Ovvero quello con Teddy Reno — lui già sposato (e separato) — ad Ariccia alle porte di Roma, quel prete cui Rita va a chiedere speciali dispense, lui si mette a farle la predica e spiegarle il perché e il percome: «Gli risposi, con rispetto: le ho solo chiesto se si può fare. Se non si può, niente. Andrò a vivere nel peccato, ma nel peccato mi ci avete messo voi». La sposò poi un prelato, che capì le sue istanze («E dire che per una promessa fatta a mia madre io ero arrivata casta al matrimonio»). Ma al quale tolsero subito importanti incarichi. E intanto là fuori, l’Italia gossippara che impazziva appresso alla maternità-scandalo. Un giorno, il patatrac. In tv va alla grande Alighiero Noschese con le imitazioni, Rita è un suo cavallo di battaglia (una volta la trasforma in Nilde Iotti che si lamenta con Togliatti: “Perché perché la domenica mi lasci sempre sola per andare al comizio del partito di Baffone?”). Ma una sera a Doppia Coppia a Noschese scappa del tutto la frizione: e la imita incinta, con feroci ironie sul bellissimo ma spiantato Teddy accalappiato dalla cantante e sul sesso del nascituro. «Era una parodia crudele. Non doveva tirare in ballo il figlio che stava per nascere: feci causa alla Rai, la vinsi. Il giorno stesso il presidente Leone firmò un’amnistia generale che cancellò anche quel reato». E insomma, niente, la storia di un clamoroso successo da noi finisce in pratica lì, con la Rai che si offende per la causa e l’ostracismo per gli anni a venire e, va ricordato sempre, l’ostracismo Rai, allora, era ostracismo da tutto. Per fortuna in America c’era Ed Sullivan…. «Mi aveva preso in simpatia, ed era curioso dell’Italia: un’altra volta al suo show c’eravamo io, Paul Anka e Topo Gigio». Prego? «Lui. Con lo stesso staff italiano e il doppiatore Mazzullo che parlava in inglese». Ecco.
Oggi possiamo arrivare però a una decisione finale. Quello della partita di pallone, il maschio, non andava alla partita, vero? «Diciamo che rimane molto ambigua la cosa, quella che è molto chiara è lei, il senso del messaggio è quello e il richiamo brusco di lei». Fino a che è diventata simbolicamente una storica avversaria del calcio. «Ma quando mai? Mio padre mi portava alle partite, girando il mondo ho conosciuto i più grandi, una volta a Mosca c’erano Pelè e Garrincha: ho una foto con loro due». Insomma, tornando al fattaccio, il paese era cambiato, la tv era preclusa ma ci fu molto altro, gli show, le parti d’attrice anche per La strada, in una post-Gelsomina: «Avevo lavorato con Giulietta Masina: pensi che alla sera veniva Fellini a prenderla, così, tranquillo, come se fosse un qualsiasi impiegato. La Wertmüller mi diceva che io e Giulietta avevamo lo stesso sguardo».
Oggi, questo esilio ben riparato in Svizzera e Spagna, è sempre per farla pesare un po’ a questo paese? «L’Italia è fantastica ma è un paese senza memoria, come sfuggire al confronto con gli altri posti? Giorni fa era l’anniversario di Edith Piaf, in Francia speciali su speciali in tv, da noi non accadrebbe». Non si può far stare dentro tutto quanto in una rievocazione: dell’ascesa, caduta — dorata anch’essa — e traversie e gli specchi del Paese che un po’ evolve e molto no. Qualche spunto, aneddotica fantastica qui e là. Umberto Eco, per dire. Che nel Diario Minimosi occupò per diverse pagine della Rita e lanciò una sentenza definitiva: «Lei è Lolita spiegata per la prima volta al popolo». Nel senso che Nabokov era riservato a una ristretta cerchia di perversi lettori di libri (perversi in quanto lettori, non per Nabokov) ma Rita mandò per la prima volta pubblicamente a milioni di persone l’impulso chiarissimo della sessualità giovane — se poi ci aggiungiamo la famosa androginia di facciata la faccenda diventava pressoché esplosiva. Quelle pagine di Eco campeggiano nel sito ufficiale, ricchissimo, della cantante: «Ricordo benissimo quei giorni, ero stupefatta: uno come Eco parlava di me. Mi sarebbe andata benissimo anche se mi avesse maltrattato per tutte quelle pagine ».
È tornata, Rita, in grande stile allo show tv recente di Gianni Morandi. Rievocazioni insieme, medley da mandare ai matti il pubblico sui sessanta (ovvero, la maggior parte o quasi) e i ricordi degli inizi: «Entrambi giovanissimi eravamo stati reclutati dalla Rca che ci teneva in una pensioncina di piazzale Clodio, avevamo anche una specie di tutor». Un giorno Gianni rientra e la trova che si sbaciucchia con Bruno Filippini, bellone canterino d’epoca. Ma è vero che le urlò “Lo vado a dire alla tua mamma”? «Verissimo: aveva una cotta per me, ma io filavo con Bruno». E dire che Morandi era il versante progressista del paese — la Rita, con quella parte lì e in generale con i moralismi rigidi non si è mai trovata bene — e quanto al discorso di come lo scricciolo androgino attirasse ragazzi e uomini che potevano permettersi quello che volevano, beh, insomma, c’era appunto Eco a spiegarlo, se proprio si vuole lasciar perdere la perfidia del gossip d’epoca.
Resterebbero i Pink Floyd. In realtà resterebbero tre o quattro libri da scrivere, ma quella dei Pink Floyd è deliziosa. Siamo già in epoca web. «Un giorno scopro che un sito scrive che i Pink Floyd parlavano di me in un vecchio brano, che si chiamava San Tropez: addirittura un verso che dice “prenderò un appuntamento con Rita Pavone”». In realtà il testo dice che prenderà un appuntamento al telefono (“Making a date for later by phone”) ma in rete c’è chi sostiene di aver sentito benissimo “Rita Pavone”. Balla colossale, ma lei si diverte e ci marcia su: «Ma è vero: una volta, in Costa Azzurra stavo per conoscere i Pink Floyd che erano nello stesso albergo, allora l’ho raccontato scherzandoci un po’». Ma a quel punto il web non lo tiene più nessuno. E Rita va, la leggenda urbana le si addice fermo restando che ora, essendosi tolta la voglia di fare il disco definitivo, se ne va tranquillamente a inseguire la leggenda e basta. In caso contrario fa lo stesso, come disse quella volta al prete.