Vittorio Zucconi, la Repubblica 17/11/2013, 17 novembre 2013
IL PRESIDENTE È MORTO – [L’UOMO CHE FECE PIANGERE IL MONDO]
John Fitzgerald Kennedy morì 38 minuti dopo essere morto.
Non importa che i chirurghi del Parkland Hospital di Dallas lo avessero certificato morto alle 13 ora locale, che il cappellano cattolico padre Hubert gli avesse già impartito il sacramento dell’addio e che sulla Lincoln nera scoperta lanciata verso il Pronto Soccorso Jackie avesse già capito e gridato «Hanno ammazzato mio marito, hanno ammazzato Jack» tentando di raccogliere con le mani brandelli di materia cerebrale. JFK non sarebbe morto fino a quando un uomo in maniche di camicia, levandosi gli occhialoni dall’enorme montatura nera, deglutendo lacrime e balbettando parole, non avesse detto all’America: «Il Presidente Kennedy è morto, circa 38 minuti or sono». Per i 175 milioni di americani che si erano fusi ai loro piccoli tubi catodici in bianco e nero, la massima audience mai raccolta al mondo e che soltanto lo sbarco sulla Luna avrebbe superato nove anni più tardi, JFK morì quando Walter Cronkite, dagli studi della Cbs, si arrese alla realtà.
Kennedy fu il primo uomo nella storia a morire due volte. Una volta sotto i colpi di colui — o coloro se si vuol restare aggrappati alle infinite teorie complottiste — che gli disintegrò il cranio con un proiettile di fucile. E una seconda quando finalmente Cronkite si decise, ormai sommerso dai lanci di agenzia e dalle telefonate da Dallas dei corrispondenti e reporter infuriati, ad accettare l’inaccettabile, ad ammettere l’inammissibile. La morte di Kennedy segnò la nascita della televisione come l’avrebbe conosciuta, vissuta, subìta la generazione che va da quegli schermi bluastri e ballonzolanti nella incerta sintonia verticale delle valvole fino all’esplosione dei nuovi media e dell’informazione polverizzata in Internet. Trascorrono sessantotto minuti fra l’eco degli spari davanti al Deposito dei libri della Texas School sulla Dealey Plaza e la resa di Cronkite con l’annuncio funereo. E seguire il percorso della notizia, di come il mondo apprese dell’omicidio che lo avrebbe cambiato, significa ripercorrere il sentiero di un tempo che oggi appare lontano come le cronache delle Guerre Galliche.
La prima notizia degli spari arrivò alle 12.34 ora di Dallas, un’ora indietro rispetto al fuso di New York, sette rispetto all’ora dell’Italia già nel buio dell’autunno profondo. È un cronista dell’agenzia di stampa United Pres International a darla, Merriman Smith. Viaggiava, insieme con il collega e feroce concorrente della Associated Press, Jack Bell, su un’auto specialmente attrezzata dalla compagnia AT&T con radiotelefono, allora all’avanguardia delle telecomunicazioni. Era la quarta macchina nel corteo presidenziale dietro la Lincoln di Kennedy. Il suo dispaccio è telegrafico e confuso, tutto in maiuscole, come stampavano le telescriventi: “THREE SHOTS WERE FIRED AT PRESI-DENT KENNEDY’S MOTORCADE TODAY IN DOWNTOWN DALLAS”. Tre colpi sparati al corteo del presidente Kennedy oggi nel centro di Dallas. Niente altro. Non se JFK fosse stato colpito, né se i tre colpi avessero raggiunto qualcosa o qualcuno. Smith, collezionista di armi e tiratore appassionato, aveva immediatamente riconosciuto lo schiocco aspro di un fucile da cecchino, come era il Carcano Mannlicher di Oswald e respinto subito ipotesi di esplosioni nelle marmitte delle moto di scorta. Aggrappato al radiotelefono, che il concorrente della Ap cercava invano di strappargli per dare anche lui la notizia degli spari e aggiornarla con la visione eloquente della limousine del presidente, e di Jackie arrampicata sul suo corpo, lanciata a tutta velocità, Smith riuscì a conservare l’esclusiva dello scoop cercando di spiegare all’altro che «il radiotelefono funzionava male». Con i due reporter avvinghiati in una lotta per strapparsi la cornetta, l’auto della stampa arrivò all’ospedale da dove, cinque minuti più tardi, Smith riuscì a inviare un altro dispaccio ben più terribile e ancor più sgangherato: “FLASH FLASH: KENNEDY SERIAMENTE FERITO FORSE SERIA-MENTE FORSE FATALMENTE DA PROIETTILE ASSASSINO”. Sui telex di tutto il mondo, lo squillo dei cinque campanelli che allora segnalavano dispacci urgenti era diventato il battito furioso di quindici campanelli, il massimo dell’urgenza e dell’importanza.
Nella redazione della Cbs News a New York il regista e produttore dei notiziari, Dan Hewitt, chiamò Cronkite, allora il direttore e l’anchorman dei telegiornali. Mentre i chirughi della ER del Parkland Hospital a Dallas tentavano inutilmente di rimettere insieme la testa distrutta del presidente, la rete Abc stava trasmettendo le ultime canzoni di Doris Day Happy in Hollywood e la Cbs una amatissima soap story, As the World Turns, come gira il mondo. Non c’erano studi pronti per la diretta. Non c’erano collegamenti video possibili con Dallas. Dove un giovane reporter, Dan Rather, aveva già saputo da un medico che Kennedy era morto. Allora occorrevano venti minuti per scaldare le telecamere a valvole e per portare a temperatura le lampade. Sotto lo scampanellìo incessante dei telex, Hewitt e Cronkite piombarono negli studi, si impadronirono dei microfoni, ottennero di interrompere la soap e uno spot sulle crocchette per cani, Friskies, e lessero il primo bollettino sull’attentato. Sul piccolo schermo apparve, invece dei cuccioli ingordi, uno schermo nero con il semplice logo della Cbs.
Kennedy era già morto. Il suo corpo era già stato rimosso dalla tavola operatoria e composto nella bara di zinco, avvolto da un foglio di plastica, per il trasporto verso la sala dell’autopsia che per legge sarebbe stata obbligatoria ma che la Casa Bianca, il vice presidente Johnson, Jackie e i Servizi segreti impedirono. Ma Cronkite non voleva rassegnarsi. Fedele al principio ormai dimenticato secondo il quale nel giornalismo sarebbe meglio dare notizie corrette piuttosto che essere i primi, puntava i piedi. Da Dallas il tono delle agenzie si faceva sempre più pressante ed esplicito. “Fonti”, ancora anonime, parlavano di morte di JFK. Rather strepitava al telefono di avere visto i due preti entrare nell’ospedale per il rito della morte. Nel salone dell’hotel dove, all’ una, il presidente avrebbe dovuto parlare, i camerieri, tutti di colore, piangevano con la testa nei tovaglioli bianchi ormai inutili. La rivale Abc e la Nbc, che pure non avevano il dispiegamento di inviati Cbs, ben sei spediti a Dallas, avevano già sparato la notizia. Persino la stazione tv locale, affiliata alla catena di Cronkite, aveva annunciato la morte “non ancora confermata”. Ma lui, lo zio Walter che per decenni avrebbe poi messo a nanna l’America con la frase di chiusura dei suoi tiggì, «And that’s the way it is», e così stanno le cose, no, non mollava. In maniche di camicia stazzonata con cravatta nera sottile dentro il colletto button down, i capelli scarmigliati, fuori campo la mezza colazione di cottage cheese e ananas preparata dalla moglie Betsy per combattere la tendenza a ingrassare, Cronkite avrebbe resistito per 5 minuti e 44 secondi, un’eternità nel tempo televisivo, alla certificazione. Sapeva che spettava a lui dare l’annuncio, che senza di lui Kennedy non sarebbe morto, che in quel momento di congiunzione fra media e realtà, la nuova era della televisione sarebbe esplosa o sarebbe stata distrutta per sempre.
Lottò, zio Walter, con le parole e con i dispacci, con produttore e regista che fuori campo gli gridavano «È morto! È morto!», col presidente della Cbs, Frank Stanton che avrebbe voluto obbligarlo a indossare la giacca. Ma sentiva di tenere per mano quella nazione smarrita di 175 milioni davanti a lui, sui neppure 200 milioni che allora vivevano negli Usa, che gli si era affidata per sapere, per illudersi. I quotidiani di carta mordevano il freno, tentando edizioni speciali incurabilmente indietro. La radio informava, era il suo momento di grande fulgore, ma il magnete delle immagini era più forte, anche se l’immagine è quel piano americano fisso sul mezzobusto di Cronkite. E non era soltanto questione di quando dare l’annuncio,ma di come, perchè Cronkite aveva già intuito che dietro quei tre colpi di fucile a Dallas si sarebbe scatenato un uragano di speculazioni, teorie, dietrologie che neppure mezzo secolo più tardi si è placato. «Sentivo di dovere stare attentissimo a non raccogliere nulla di quello che anche la agenzie battevano, sospetti contro i cubani, i russi, la Cia, il Servizio segreto, Johnson, il Pentagono, la mafia» dirà poi in un’intervista poco prima di morire.
Il suo cammino verso l’ineluttabilità della morte di JFK è un calvario di mezze ammissioni. Cerca di non usare mai la parola “assassinio”, perché comporta una morte. La confessione del medico che ammette con Dan Rather che Kennedy se ne è andato è «non confermata». La voce sonora e melodiosa, senza inflessioni, accompagna quei 5 minuti e 44 secondi di salita al supplizio come quella di un parente al capezzale, interrompendosi soltanto per leggere notiziari flash sempre più espliciti, ma non definitivi. «Dan Rather ci informa», «Unconfirmed», sono le formule alle quali si aggrappa. Fino alla resa delle 13.38: «Da Dallas, Texas, un flash apparentemente ufficiale: il presidente Kennedy è morto all’1 p.m. ora centrale del continente, le due sulla East Coast, circa 38 minuti fa». Ma più delle parole, per cinque ore e mezza, senza spot, senza pause, in onda, live, davanti alla telecamera conterà quel togliersi e rimettersi gli occhiali, quelle labbra serrate, gli occhi che sbattevano, la voce che si tacque per tre secondi lunghissimi, il tempo di deglutire il magone. La notizia era diventata lui. Kennedy era morto per la seconda volta in quelle lacrime.