Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 17 Domenica calendario

1913, LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA


Quante cose accaddero in quel lontano eppure così vicino 1913. Data fatale, talvolta storditamente allegra, altre volte inspiegabilmente muta e sfuggente. A ogni modo fu anche una data drastica, conclusiva, dirimente. Marcata con inconsapevole simbolismo dall’enigmatico numero 13, doveva segnalare e preparare, in silenzio, all’insaputa delle stesse popolazioni coinvolte, gli olocausti fratricidi che troveranno nella Grande guerra il loro primo e sconvolgente banco di prova.

Si potrebbe anzi parlare, con un tocco di misurato sarcasmo, di una singolare e quantomai violenta prova generale.
L’inizio delle tragedie belliche, destinate a sprofondare l’Europa e gli europei in una sorta di suicidaria ebbrezza distruttiva, incomincerà come tutti sanno nell’anno successivo al 1913. L’Ottocento della Belle Epoque sarà infatti giustiziato nella torrida e lugubre estate del 1914. Vedremo allora l’Ottocento spegnersi in un minaccioso cielo parigino. Cielo plumbeo dove già sostano, immobili ma sempre più minacciosi, gli Zeppelin dell’aeronautica germanica: ce li farà intravedere anche Proust, nelle ultime pagine del tempo «ritrovato», dopo quello perduto o forse sperduto nella sua interminabile recherche esistenziale e mondana ancor più che letteraria. La Ville Lumière si spegneva, via via, come la stessa recherche proustiana; si ottenebravano i luoghi di piacere e di svago come il Moulin Rouge o le avvolgenti taverne di Montparnasse; vediamo Parigi incupirsi in un coprifuoco epocale, che Proust descriverà con crescente malinconia avviandosi alla fine della sua opera per molti aspetti intrisa di un pessimismo quasi nichilista.
Il 1913 verrà dunque definito come l’anno «prima della tempesta». Così si presenta fin dal titolo (per l’appunto: 1913, edito da Marsilio) un libro intensissimo, con pennellate sospese tra il distacco del saggista e la contemplazione del poeta, in cui il tedesco Florian Illies, nato nel 1971, percorre a ritroso la storia europea del XX secolo. Sul libro si è già espresso con termini giustamente positivi, in un’intervista concessa due settimane fa alla Stampa, il presidente socialdemocratico del Parlamento europeo Martin Schulz. Illies si sofferma in particolare sul 1913, per avvertirci che è quella la data terminale, una data d’attesa e di sosta, prima dello scoppio a catena di tante carneficine e tanti disastri. Un anno, dunque, quant’altri mai ambiguo, se vogliamo inafferrabile e al tempo stesso consolatorio: la cultura atavica, la grande civiltà o «civilizzazione» dell’Europa, ancorché sospesa sull’abisso, sembrano rigermogliare in un estremo sospiro di congedo sotto la penna e il pensiero Husserl, Heidegger, Bergson, o sotto i pennelli dirompenti di Picasso e di Matisse.
Illies non concede né al lettore né a se stesso un attimo di sosta. Il ritratto che lo scrittore, davvero eccezionale in molte delle sue pagine, traccia dell’ultimo anno di pace in Europa, è per tanti aspetti davvero fuori del comune. È la riscoperta di un’attesa storica angosciosa, soporifera, quasi cronometrata sulle insonnie degli intellettuali europei che danno, in uno stesso momento, l’impressione di aspettare e non aspettare il peggio che sta lì lì per esplodere e abbattersi sul continente. Sarà, il 1913, non solo l’anno ambiguo che ormai crediamo di conoscere. Sarà anche, per tanti intellettuali europei, l’ultimo anno buono e vivibile che essi assaporeranno fino in fondo nei suoi variegati umori vitali, estetici, erotici, mondani: in parte paradiso e in parte inferno.
Poi la tempesta s’abbatterà sull’Europa nel fatidico Quattordici. Va detto che quasi nessuno o pochissimi avevano trovato il coraggio di prestare un’attenzione seria ai sintomi del diluvio. Nel 1914 il diluvio si scatenerà, infatti, fra lo stupore e la sorpresa di importanti cenacoli di studiosi e di alcune grandi cancellerie del momento. Vedremo il «secolo breve» bruciare e consumarsi in una sequela di decenni sinistri fino alla caduta del Muro nel 1989. Tristi date intermedie, segnalando guerre, rivolte, rivoluzioni, esodi di massa, scandiranno vite e sciagure di almeno due o forse tre generazioni.
Prendiamo a esempio la fervida quanto sventurata Mitteleuropa. Vienna, Praga, Zagabria, Budapest erano stati presidi di una civiltà unica nel suo genere: civiltà fulminea quanto intensa, omogenea pur nelle pulsioni delle sue diversità che troveranno però nella cultura e soprattutto nella lingua tedesca, lingua franca per almeno un secolo, un saldo denominatore comune. Tutto questo finirà sotto il tallone degli eserciti di Hitler e, poco più tardi, sotto quello delle armate di Stalin. Pesantissimo sarà il giogo d’oppressione e di schiavitù a cui dovranno sottomettersi nazioni d’antica civiltà, come Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, asservite prima dalla Germania e poi dalla Russia. Ma il tempo induce all’indulgenza. Agli occhi di molti storici futuri, probabilmente, gli svantaggi degli oppressi diminuiranno, mentre aumenteranno i vantaggi «dialettici» (si diceva così una volta) che le più drammatiche svolte e ipocrisie della storia portano spesso con sé.
Tocchiamo qui l’essenza più intima, anche la più imprevedibile, che connotò l’inquietante e all’apparenza ingenuo clima da vaudeville, caratteristico di un certo diffuso umore del 1913, incline alla retorica e all’aggressività nazionalista dei Paesi grandi e più intossicati come la Francia di Clemenceau e la Germania del Kaiser. È, questo, «l’anno prima della tempesta». L’anno finale della Belle Epoque. L’anno dei lupi hobbesiani che s’addensano a formare branco prima dell’assalto.
Così sottolinea Florian Illies nel suo libro dedicato alla data fatale. Per l’appunto, tutto è sotteso e sottinteso nell’epitome asciutta del titolo. 1913. Che volete di più? Così sembra dirci l’autore, che sulla copertina sbandiera come un monito profetico i quattro numeri di quell’anno fatale e di quell’epoca smagliante e ingannatrice: incline al suicidio morbido, falsamente allegra, in attesa che trincee, dinamite, gas asfissianti eccetera spingano fino in fondo il trivello dell’autodistruzione. Insomma, non è facile catalogare il 1913. Il meglio che si possa dire o pensare è che fu l’ultima sosta, la più fragile, prima del salto nel vuoto e nel nulla.