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 2013  novembre 16 Sabato calendario

LE MANI DI BRUXELLES SULL’ITALIA COSÌ CI VOGLIONO COMMISSARIARE


Milano A voler essere ottimisti, il brutto voto assegnato dalla Commissione europea alla legge di Stabilità potrebbe essere classificato come l’ennesima conferma dell’umore ondivago di Bruxelles nei confronti dell’Italia. Un pendolo in continua oscillazione tra il bastone e la carota, una dinamo a corrente alternata capace di dispensare carezze «per gli sforzi fatti» ma anche di rifilare ceffoni causa «la lentezza delle riforme». Ma il «semaforo arancione», nella definizione eufemistica del commissario Olli Rehn, rischia di essere il segnale premonitore diun prossimo commissariamento dell’Italia. Insomma, saremmo già alle prove tecniche di troika, alla messa sotto tutela di Ue, Bce e Fmi con la conseguente cessione della sovranità nazionale.
La bocciatura alla legge di Stabilità è del resto un fatto grave. Lo è perché la manovra porta in calce soprattutto la firma di Maurizio Saccomanni, una vita spesa in Bankitalia a contatto con Mario Draghi. La stretta vicinanza e la condivisione di idee tra il ministro dell’Economia e il presidente della Bce avrebbero dovuto proteggere, nelle intenzioni, l’Italia dagli strali comunitari. Un’ulteriore blindatura sembrava garantita dall’aver strappato al dipartimento Affari di bilancio del Fondo monetario internazionale Carlo Cottarelli (anch’egli, peraltro, ex Bankitalia) per affidargli la supervisione interna della spending review . Ovvero, l’architrave di quella politica di austerity sconfessata, seppur con colpevole ritardo, dallo stesso Fmi. Nel tragitto da Washington a Roma, Cottarelli ha quindi perso il piumaggio da colomba ed è arrivato nella capitale volandoconlealidafalco. Questo double team rigorista non è però bastato per strappare il «sì» della Commissione Ue.
All’Italia viene imputato un insufficiente calo del debito. Vero. Il debito, anziché diminuire, è cresciuto fino ad arrivare al 133% del Pil, e promette di salire l’anno prossimo fino a raggiungere quota 134%. La sostanziale stabilità dello spread sembra aver garantito finora solo una minor spesa per interessi. Ma per il resto, le condizioni in cui si trova un Paese che ha bruciato nove punti di Pil e un quarto della produzione industriale dal 2007 a oggi, con una scia di recessione lunga nove trimestri e che da gennaio a fine settembre ha visto fallire 10mila imprese, non permettono neppure un contenimento degli oltre duemila miliardi di debito pubblico. La contrazione dell’economia, aggravata dalle politiche restrittive (un fenomeno ammesso perfino da Mario Monti), porta infatti a una continua erosione del gettito fiscale nonostante i sacrifici imposti a famiglie e imprese. Chi non lavora, ovvero il 12,5% degli italiani, ha forzatamente tagliato i consumi. Ciò significa minori entrate erariali e minori profitti per le imprese, costrette quindi a mandare a casa altri lavoratori. Una spirale perversa.
Anche se di troppo rigore si può morire, è difficile ipotizzare un default dell’Italia. In fondo, siamo pur sempre too big to fail . Se però le agenzie di rating dovessero classificare il nostro debito come junk, cioè spazzatura, i grandi investitori istituzionali sarebbero costretti a sbarazzarsi di Bot e Btp. Con conseguenze così disastrose da rendere inevitabile l’sos alla Bce attraverso l’attivazione dello scudo Omt. Di fatto, si spalancherebbero le porte all’arrivo della troika. Viste le esperienze precedenti (Irlanda, Grecia e Portogallo), la medicina prescritta sarebbe molto amara: robuste sforbiciate ai dipendenti pubblici, taglio ai salari minimi e picconate al welfare . Misure che condannerebbero il Paese ad altri anni di recessione. L’alternativa? Una: picchiare i pugni sul tavolo per rinegoziare con l’Europa le regole di un gioco mortale.