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 2013  novembre 16 Sabato calendario

PERISCOPIO


Scontro Briatore-D’Alema. È dovuta intervenire la guardia costiera. Spinoza. Il Fatto.

La politica è una forma di superficialità: non ho mai votato. L’ultima cosa politica che mi ha preoccupato è la caduta di Costantinopoli in mano agli infedeli, il 29 maggio 1453. Alvaro Mutis. Il Foglio.

I senatori inquieti sono quasi tutti del Sud. Pensare che ci sia una propensione meridionale al tradimento non è del tutto sbagliato. È un fatto di status sociale. Diciamo la verità. Un deputato del Nord, per strada, non se lo fa nessuno. In un paese del Sud è omaggiato e riverito. Conta di più degli altri. Al Sud è chiamato onorevole e al Nord se ne strafottono. Quando poi decadi sei davvero finito, non ti invitano più nemmeno per un caffè. Lasciare la poltrona è più doloroso al Sud. Clemente Mastella. il venerdì.

Posso anche capire che per scacciare lo spettro di Matteo Renzi, Enrico Letta e Pierluigi Bersani tendano a occultare le responsabilità della loro disfatta storica, fondando una società di muto soccorso, ma almeno ci risparmino la frottola che la trattativa con M5S (due mesi di paralisi per il Paese) era la tattica e le larghe intese erano la strategia. Come direbbe il grande Totò: ’cca nisciuno è fesso. Michele Magno. Il Fatto.

Il centro della politica non è una maledizione, ma il riconoscimento delle ragioni degli uni e degli altri. Nessuna democrazia dell’alternanza può basarsi sulla demonizzazione degli avversari, anche in riferimento a Silvio Berlusconi. Bisogna invece che si basi su un minimo comun denominatore di valori condivisi. Pier Ferdinando Casini. La Repubblica.

Un tempo l’emulazione era verso l’alto. Io non sono mai stato il primo della classe, ma non ho mai pensato di invidiare i più meritevoli. Mia nonna mi diceva: «Vai con delle persone migliori di te». Oggi si dice: «Siccome non riesco a raggiungerti, scendi tu al mio livello». Bruno Vespa. Sette.

Il quartiere alla periferia di Roma dove ci trasferimmo non era ancora finito, ma c’era la parrocchia. Fondamentale. Magari te rubbava l’anima, ma ti restituiva una formazione oggi impensabile. Luigi Proietti. Il Fatto.

I mercati siamo noi con le nostre insicurezze, ingordigie, distorte percezioni, confuse aspettative, a volta immotivate, ma non per questo meno reali. Fabio Basagni nella prefazione a Pecunia olet? di Michael Perth. Lepre edizioni.

In un bar nel 1948, moltissimo tempo fa quando Bogotà era ancora una città con mattinate gelide, tramway lenti, campane dal suono grave, cari funebri trainati da cavalli da tiro guidati da cocchieri in livrea e cilindro io, che avevo 16 anni ed ero figlio di un direttore di giornale, feci la conoscenza con il ventenne Gabriel Garcìa Marquez. Plinio Apuleyo Mendoza, Quegli anni con Gabo. Un Garcìa Màrquez sconosciuto. Anordest

Nella filmografia morettiana la classe operaia non va in paradiso né all’inferno. Semplicemente non esiste, né esistono i contadini o le masse. Solo borghesi, piccoli, medi, medio-alti, intellettuali o cafoni, ma solo borghesi, come un decadentista di inizio Novecento, uno Svevo o un Musil qualsiasi. D’altronde quando in Caro Diario, fermatosi a un semaforo e sceso dalla Vespa, Moretti dice a un allibito automobilista che lui, anche in una società più decente di questa, sarà sempre minoranza, può far venire in mente più un Luigi Einaudi o un Ugo la Malfa che un Berlinguer. Alessandro De Nicola. la Repubblica.

E poi farei vedere a mio padre (Egisto, uno dei più grandi inviati del Novecento ndr) un iPhone, o anche un cellulare da pochi euro. Quella rivoluzione che lui, per poco, ha perso: per cui ci sembrano archeologia di un altro evo, le cabine telefoniche. Che meraviglia (lieta, eppure anche pensosa) passerebbe nei suoi begli occhi verde grigio. Vedi papà, gli direi, non hai più da sognare di non trovare un telefono per raccontare l’alluvione in Polesine, o i carri armati a Praga. Ora sappiamo tutto, e ci diciamo, subito, ogni cosa; vediamo il mondo in tempo reale, tanto che a volte un giornalista può chiedersi che cosa resti, da raccontare. Mio padre rimarrebbe silenzioso, devoto, davanti a queste meraviglie. Ma poi, se insieme camminassimo ancora per le strade di un qualsiasi sconosciuto paese, so che allungherebbe lo sguardo su piccoli, apparentemente trascurabili dettagli: l’inclinazione dei tetti, che, mi insegnava, cambia con i climi e, già in sé, racconta se in una terra gli inverni sono lunghi o brevi. Guarderebbe l’allineamento delle viti nei campi, e le parole sugli annunci mortuari, in piazza, e i nomi dei vivi e quelli dei morti. E già avrebbe da raccontare una storia che nessuna webcam riprende, nessuna fotocamera di cellulare. Vedi papà, che meraviglie hanno inventato? Lui con l’iPad giocherebbe come un bambino. Poi, dopo un po’, se ne stancherebbe. E tornerebbe, non sazio della leggerezza del virtuale, a guardare e fotografare il mondo coi suoi occhi. A cercare, annusare, toccare la realtà, quella carnale: inesorabilmente sospinto da un suo fanciullesco stupore. Marina Corradi. Tempi.

Guidando in una strada di Praga, guarda nello specchietto retrovisore e si accorge che dietro alla sua c’è sempre la stessa macchina. Non ha mai dubitato di essere seguito, ma finora lo hanno sempre fatto con discrezione magistrale. Oggi, dunque, la situazione è radicalmente cambiata: vogliono che si accorga di loro. Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio. Bompiani, 1978.

Nel libro L’integrazione di Bianciardi edito da Bompiani il romanziere definiva Giangiacomo Feltrinelli «ignorante come un tacco di frate, e ricco da far schifo» e della sua casa editrice diceva che era un impresa «in cui tutti i difetti dell’industria moderna e tutti i difetti del Partito Comunista si mischiavano a formare un casino credo unico al mondo». Antonio Gurrado. Il Foglio.

Si continua a non capire che uno dei problemi italiani è che ci sono troppi cuochi in cucina. Giuliano Cazzola. il Sussidiario.

Non capita tutti i giorni che un presidente della Confindustria come Squinzi, illustri un’intesa a una platea di militanti Pd, come è avvenuta alla Festa del partito a Genova, i quali militanti non esitano ad applaudire il «padron delle ferriere» come quei comunisti raccontati da Giovanni Guareschi che, all’inaugurazione della Casa del Popolo, si spellano le mani all’arrivo del Vescovo. Il Foglio.

Qui giace Roberto Gervaso che ancora stenta a crederci. Roberto Gervaso. il Messaggero.