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 2013  novembre 16 Sabato calendario

LA TRAPPOLA DELL’EURO


A I TEMPI dello scivolone della Grecia, quasi quattro anni fa, alcuni analisti (me compreso) credettero di assistere all’inizio della fine dell’euro, la valuta comune europea.
Altri, più ottimisti, ritennero che un regime di amorevole disciplina — ovvero: un aiuto limitato nel tempo e abbinato a delle riforme — avrebbe prodotto entro breve una ripresa. Sia gli uni che gli altri si sbagliavano.
Ci siamo trovati di fronte, infatti, a una crisi protratta, che non porta mai ad alcuna risoluzione. Ogni volta che l’Europa sembra sul ciglio del precipizio, i legislatori trovano il modo di scongiurare la catastrofe. Analogamente, ogni volta che si scorgono gli indizi di un’autentica ripresa qualcosa va storto.
Come è appena accaduto. Non molto tempo fa, le autorità europee avevano dichiarato che il continente aveva svoltato: il mercato dava nuovi segni di fiducia e la crescita era in ripresa. E adesso che su gran parte dell’Europa incombe lo spettro della deflazione, ecco spuntare un nuovo motivo di preoccupazione — mentre il dibattito sul da farsi sta assumendo toni davvero sgradevoli.
Un po’ di contesto: la Banca centrale europea, o Bce, equivalente europeo della Federal Reserve, dovrebbe riuscire a mantenere l’inflazione attorno al due per cento. Perché non attorno allo zero? Per diversi motivi, il più importante dei quali, ad oggi, sta nel fatto che per le travagliate economie dell’Europa meridionale un tasso generale di inflazione troppo vicino allo zero si tradurrebbe, di fatto, in deflazione. E per dei Paesi già gravati da un debito ingente, la deflazione presenta effetti collaterali economici incresciosi. Ecco perché il fatto che l’inflazione europea abbia iniziato a scendere ben al di sotto del target è fonte di grande preoccupazione; nel corso dell’ultimo anno i prezzi al consumo sono cresciuti solo dello 0,7 percento, mentre i prezzi “core”, che escludono il costi volatili degli alimenti e dell’energia, sono aumentati solo dello 0,8 percento.
Occorreva fare qualcosa, e la scorsa settimana, con un gesto palesemente opportuno e al tempo stesso palesemente inadeguato, la Bce ha tagliato i tassi di interesse. È chiaro che l’economia europea ha bisogno di una spinta, ma l’intervento della Bce è destinato a produrre, tutt’al più, una differenza marginale. Rappresenta comunque un passo nella giusta direzione.
La mossa della Bce ha suscitato una controversia enorme, sia all’interno che all’esterno della Bce. E la controversia ha assunto toni infausti (quanto meno per chiunque ricordi il terribile passato dell’Europa), poiché le discussioni sulla politica monetaria europea non sono semplicemente uno scontro di idee, ma assomigliano sempre più spesso a uno scontro tra nazioni.
Ad esempio, chi ha votato contro il taglio del tasso? I due membri tedeschi del board della Bce, a cui si sono aggiunti i direttori delle banche centrali olandese e austriaca.
E chi, al di fuori della Bce, ha criticato con maggiore durezza l’intervento? Gli economisti tedeschi, che oltre ad avversare la mossa della banca nella sostanza, hanno anche tenuto a porre l’accento sulla nazionalità di Mario Draghi, presidente della Bce, che è italiano. L’influente economista tedesco Hans-Werner Sinn ha dichiarato che Draghi stava semplicemente tentando di permettere all’Italia di accedere a prestiti a basso tasso di interesse, mentre secondo il principale economista del settimanale
WirtschaftsWoche, il taglio del tasso sarebbe il «diktat di una nuova Banca d’Italia, che ha sede a Francoforte».
Simili insinuazioni sono estremamente ingiuste nei confronti di Draghi, i cui sforzi per contenere la crisi dell’euro sono al limite dell’eroico.
Anzi, mi spingo sino ad affermare che senza la sua leadership l’euro probabilmente sarebbe crollato nel 2011 o nel 2012. Ma lasciamo stare i singoli. Ciò che spaventa, qui, è il fatto che la faccenda sta assumendo i toni di uno scontro tra teutonici e latini, con l’euro — che avrebbe dovuto unificare gli europei — che invece li separa.
Cosa sta accadendo? Si tratta in parte di stereotipizzazioni nazionalistiche: i tedeschi vigilano costantemente per scongiurare la possibilità che quegli scioperati del sud Europa intaschino il denaro da loro guadagnato con fatica. C’è però dell’altro: i tedeschi odiano l’inflazione, eppure (poiché la Germania sta vivendo un momento di boom, malgrado le altre nazioni europee registrino livelli di disoccupazione degni della Grande Depressione) se la Bce riuscisse a portare l’inflazione media europea attorno al due percento l’inflazione tedesca probabilmente andrebbe ben oltre il tre percento.
Può sembrare ingiusto, ma è proprio così che l’euro dovrebbe funzionare. Anzi: è così che deve funzionare. Se si condivide una valuta con altri Paesi, può capitare di assistere, talvolta, a un’inflazione superiore alla media. Negli anni precedenti alla crisi finanziaria globale, l’inflazione in Germania era bassa, mentre in Paesi come la Spagna era relativamente alta. Le regole del gioco impongono però un rovesciamento dei ruoli: si tratta di vedere se la Germania è pronta ad accettare queste regole. Ad oggi, la risposta non è chiara.
Come ho già detto, l’aspetto realmente triste è che l’euro avrebbe dovuto avvicinare i Paesi europei, in modi sia sostanziali che simbolici. Avrebbe dovuto incoraggiare dei rapporti economici più stretti, e promuovere un senso di identità comune. Invece ha determinato un clima di risentimento e di sdegno, sia da parte dei creditori che dei debitori. E non se ne vede la fine.