Federico Fubini, la Repubblica 16/11/2013, 16 novembre 2013
LINEA DURA: NON CEDIAMO
QUELLA decisione ha cambiato il mondo ». Di rado Angela Merkel si lascia andare a affermazioni apocalittiche, ma se lo ha fatto un giorno con Mario Monti un motivo c’era.
LA CANCELLIERA parlava di un episodio preciso: quando il governo di Silvio Berlusconi rinnegò le promesse di riforme, nell’agosto del 2011, non appena la Banca centrale europea iniziò a comprare decine di miliardi di debito italiano pur di ridurre lo spread. Subito dopo l’arrivo di quei soldi da Francoforte, l’Italia infranse la sua parte del patto. La Bce e la Germania si sentirono raggirate. E oggi che Bruxelles mette in discussione la legge di stabilità non avrebbe senso rievocare quel momento che «ha cambiato il mondo», cioè ha distrutto un capitale di fiducia, se non fosse per due ragioni. La prima è che, con o senza Berlusconi, quel gesto resta stampato nella mente dei tedeschi. La seconda invece riguarda le regole che oggi alimentano le critiche di Bruxelles alla manovra del governo, perché derivano dal terremoto dei mercati di allora. Il «Six Pack» e il «Two Pack», i patti europei sui bilanci che furono avallati in Italia quando premier era ancora Berlusconi, nascono come risposta a quello choc del 2011. Tutti i governi accettano di sottoporre il varo di ogni legge di bilancio ad un giudizio preventivo di Bruxelles, che da ora in poi può imporre modifiche se le misure non rispettano gli obiettivi. La Germania ne è rassicurata, perché lo spazio per voltafaccia così è ridotto. Dunque a sua volta Merkel offre il silenzio-assenso all’operazione della Bce che ancora oggi tiene l’Italia a galla: prima arrivano mille miliardi di finanziamenti straordinari, che di fatto trasformano le banche in prestatrici di ultima istanza all’Italia e alla Spagna; quindi nasce l’Omt, cioè la promessa della Bce di sostenere senza limiti qualunque governo applichi un calendario prestabilito di riforme.
Ciò che è successo ieri, l’«invito » della Commissione all’Italia a cambiare la manovra, è un tassello di quest’architettura. Quell’esame racconta una situazione che in effetti non richiederebbe neppure gli economisti di Bruxelles per essere compresa. La contestazione di fondo è che il debito continuerà a salire anche nel 2014, al contrario di quanto prevede il governo, perché le stime di crescita, inflazione e tassi d’interesse presentate dal Tesoro appaiono troppo rosee. Non vengono poi prese in conto le eventuali risorse derivanti dal rientro dei capitali dalla Svizzera, dalle privatizzazioni o dai tagli di spesa, perché manca qualunque dettaglio per poterle misurare.
Quanto a questo, la Commissione europea conferma un approccio del tutto tecnocratico: il caos di dichiarazioni contraddittorie degli esponenti di governo, la valanga dei tremila emendamenti alla manovra e i troppi annunci ancora vaghi hanno finito per alimentare la diffidenza. A Bruxelles si è preferito applicare le regole in maniera del tutto letterale. Nasce anche così un giudizio che mette il governo di fronte a una scelta difficile, come già ieri varie cancellerie europee non hanno mancato di notare.
Ora le scelte si faranno nella settimana che manca all’Eurogruppo di venerdì prossimo, dove il giudizio della Commissione sarà confermato oppure smussato. Enrico Letta e il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni potrebbero confermare la linea emersa ieri dal governo. Sarebbe un rifiuto del giudizio di Bruxelles: l’idea di fondo è che la valutazione sul debito è discutibile (anche in termini legali) e che l’Italia non cambia la manovra, né rinuncia ai tre miliardi di investimenti come invece la Commissione le chiederebbe di fare. Sarebbe la politica della serranda abbassata.
Vista da Berlino, una linea del genere equivale a un secondo raggiro dopo quello del 2011. Sarebbe la solita Italia che di nuovo si dimentica degli impegni europei non appena le diventano scomodi. Eppure proprio il governo tedesco capisce come una revisione radicale della manovra, in questa fase, sarebbe un contraccolpo troppo violento per questa maggioranza. E in Europa nessuno vuole un’Italia che viola i patti, ma neppure un’Italia di nuovo in crisi di governo mentre Beppe Grillo conquista consenso parlando di un’uscita dall’euro.
È qui che si ferma la tecnocrazia e inizia l’arte politica dei governi europei. Da Letta e Saccomanni, l’Eurogruppo aspetta uno stop ai tremila emendamenti e soprattutto segnali credibili sui tagli di spesa e le privatizzazioni da fare al più presto. Già questi impegni darebbero alla Germania lo spazio per un compromesso fra ministri finanziari, a maggior ragione ora che i Paesi privi di problemi sono ben pochi. Per il governo non si tratta di «cambiare il mondo», ma di ricostruire un po’ di fiducia intorno al Paese, quello certamente sì.