Ferruccio De Bortoli, Corriere della Sera 16/11/2013, 16 novembre 2013
CINGANO, IL POTERE FORTE DEL MERCANTE E DELLA STORIA
La professione del banchiere non gode di grande credito popolare. Accadeva così anche negli anni in cui Francesco Cingano, di cui ricorre il decennale della morte a ottant’anni, fu prima alla guida della Banca Commerciale (Comit) e poi alla presidenza di Mediobanca. Però, diciamo subito che per Cingano, come per Raffaele Mattioli, quello del banchiere era soprattutto un mestiere, non una professione. Non disdegnava l’uso del sostantivo mercante nel senso di colui «che vive, prospera e decade nel mercato», ne respira l’aria, conosce chi investe e chi consuma, è parte della società e non la guarda dall’alto con disprezzo verso ciò che è materiale, costa fatica e sudore. «L’attività del banchiere — scriveva nel 1978 — è l’arte del decidere. E per decidere bisogna conoscere, capire, ottenere la fiducia del cliente, dell’imprenditore».
Alla Commerciale, il giovane Cingano era stato assunto nel 1946, ancora prima di laurearsi, in una banca che fondeva la cultura umanistica alle conoscenze tecniche, e aveva ricoperto tutti i gradini della carriera, dall’impiegato allo sportello alla carica di amministratore delegato. Si era presentato alla sede Comit di Padova su suggerimento, non su raccomandazione, di Bruno Visentini. E prima di conoscere Mattioli, le cui qualità di «protettore delle arti» erano note, aveva avuto un capo che non si era perso in una trading room prigioniero di qualche astruso algoritmo, ma scriveva commedie traendo spunto dalla realtà che osservava ogni giorno. Per Mattioli il credito era un «impalpabile manufatto», qualcosa di materiale, che si potesse toccare con mano, fortemente connesso con la realtà, con le aspirazioni e le necessità dei soggetti di un’economia. Non un’entità dispersa nell’etere della finanza, un’espressione matematica nella cui complessità si perdesse la percezione del rischio e della responsabilità.
Una buona cultura umanistica, la padronanza dei processi, un’etica della funzione erano qualità indispensabili per trasformare i capitali in progresso, i numeri in progetti, le risorse in civiltà. Non è un caso che a Cingano piacesse lo scritto giovanile di Einaudi dal titolo appunto Un Principe mercante , nel quale il futuro presidente della Repubblica ed editorialista del Corriere , elogiava la figura e la moralità di un industriale italiano che aveva cercato fortuna in Sud America, sul finire dell’Ottocento, rinunciando alle comodità del possidente lombardo e del tagliacedole in poltrona. Cingano era un laico colto, di nobili principi, di bonaria severità, rappresentante di una borghesia veneta educata allo studio e alla sobrietà. Faceva parte di una classe dirigente non elitaria, con un’idea ancora risorgimentale del Paese, un sacro rispetto delle istituzioni, così faticosamente ricostruite dopo la guerra e la Resistenza, con il culto dell’indipendenza e della separatezza dei ruoli. Una classe dirigente non priva di colpe, non esente da errori e da compromessi, ma che mantenne sempre uno stile e una compostezza nei costumi che oggi sono rari. Ci sembravano, a noi giovani cronisti dell’economia, grigi e poco coraggiosi, persino insopportabili in quell’ossessione per la riservatezza, in quell’understatement lombardo poco incline al sorriso, di nessuna gestualità, e quindi all’apparenza arido. Ma oggi, forse, li dobbiamo rivalutare alla luce dei troppi errori commessi dalle generazioni successive. Sapevano resistere, per quanto fu possibile, all’invadenza della politica, che pure avevano in casa — la Comit apparteneva all’Iri e Mediobanca era un centauro con l’azionista pubblico — e al germe delle appartenenze occulte. Gli «stranieri» come Gaetano Stammati, chiamiamolo così, furono avvolti con cortesia nella struttura bancaria che mostrava, per l’occasione, una sorprendente capacità di flettersi senza piegarsi, peraltro mostrata negli anni del Fascismo. Non erano settari, non avevano bisogno di cercarsi padrini politici. Erano poteri forti della loro storia e della loro competenza e non dell’arroganza del ruolo. Sostenevano capitalisti senza capitali, e qualche volta senza dignità, ma non anteponevano mai loro stessi alle istituzioni che rappresentavano. La contabilità fra meriti e colpe restava in attivo.
Con Cingano, sia alla Comit sia in Mediobanca, le occasioni d’incontro furono numerose e l’arco delle discussioni amplissimo. Vi era innanzitutto una preoccupazione di fondo che emerse, in analisi lucide, prima dell’avvio del Mercato unico europeo. E cioè che il nostro gracile capitalismo non fosse preparato né alla sfida dell’abbattimento delle barriere né a quello della moneta unica. Salvo rare eccezioni. Per ragioni culturali, relative all’antropologia dell’imprenditore italiano, prima ancora che per la sua debolezza patrimoniale. Sul ruolo protettivo di Mediobanca non vi era, da parte di Cingano, nessuna critica diretta — sarebbe apparsa imperdonabile e incomprensibile all’interlocutore —, ma soltanto la previsione non errata che, una volta in mare aperto, quel reticolo familiare e provinciale di intrecci e relazioni sarebbe stato travolto da competitori più grandi e geneticamente più agguerriti. Lo stesso Cingano ricordava, rievocando la figura del Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, di aver discusso a lungo con Enrico Cuccia dello scarso coraggio degli imprenditori italiani che avrebbero potuto tranquillamente ricomprarsi dall’Iri, negli anni Trenta, quote di aziende industriali a prezzi favorevoli, ma che, invece, non lo fecero.
Si parlò spesse volte dell’ascesa di Berlusconi, che non amava non tanto per le idee quanto per il modo con il quale le perseguiva, rivelatore dei veri obiettivi e dei conflitti d’interesse. Mediobanca può aver avuto molte colpe, ma non quella di aver favorito l’ascesa del Cavaliere. Cingano considerava l’istituto di via Filodrammatici un modello di coerenza nell’esercizio del credito. L’amarezza per quanti, anche tra le persone a lui vicine, avevano ceduto al fascino novista della stagione che si apriva in politica dopo le inchieste di Mani Pulite, era a volte incontenibile. Certo, Cingano era un uomo della Prima Repubblica e faticava a comprendere i fenomeni eruttivi della Seconda, coltivava il sogno dell’incontro fra i diversi riformismi di una società plurale, senza steccati ideologici. Che il suo mondo non aveva. La Resistenza, infatti, li aveva fatti convivere tutti: cattolici, azionisti, socialisti, comunisti. E uno dei suoi storici protagonisti, Leo Valiani — senatore a vita e collaboratore del Corriere — conservò fino alla morte un ufficio alla Comit. L’amicizia con Valiani fu intensa e vera e cementò in Cingano l’idea di stemperare le ideologie educando alle regole di una società liberale aperta e moderna. Mattioli, si ricorderà, in una celebre lettera del 1947 a Togliatti, sostenne che «la sana finanza» non rispondeva a un interesse reazionario, ma all’interesse nazionale e doveva stare a cuore anche alla classe operaia. Cingano scrisse nel 1984, alla morte di Berlinguer (cugino di Sergio Siglienti, suo successore al vertice della Comit) che lo univa al segretario del Partito comunista, il rifiuto di una società dello spreco «intesa come distruzione di risorse che incide su tanti aspetti della vita italiana, sia nella neghittosa sfera dell’amministrazione pubblica sia in alcune volgarità del privato». In queste frasi è racchiusa gran parte dell’etica pubblica e privata di un grande banchiere, italiano e non di sistema, che non sopportava il declino del senso dello Stato, l’affermazione, gonfia di applausi di circostanza, di individualismi e spinte corporative. Temeva il degrado estetico del suo Paese (fu, lo ricordiamo, tra i fondatori del Fai, il Fondo italiano per l’ambiente). Considerava il sostegno della cultura (per esempio l’impegno nell’Istituto italiano per gli studi storici, voluto da Mattioli e da Benedetto Croce o il proseguimento della collezione di arte contemporanea della Comit), un dovere civico: non un vezzo da ostentare o la dimostrazione di uno status raggiunto. L’impegno per la cultura e l’ambiente era una priorità morale.
Cingano visse l’era delle restrizioni al credito, dai massimali alle riserve obbligatorie, con il malessere di chi era convinto che avrebbero comportato, anche dopo la rimozione dei vincoli, una mutazione antropologica dei soggetti dell’economia. Un appiattimento dei profili professionali negli istituti di credito. Le forti esigenze di finanziamento del debito pubblico distoglievano il risparmio privato dagli impieghi produttivi, contraddicevano l’articolo 81 della Costituzione, ma soprattutto il buon senso. Ed erano una pessima lezione di educazione civica, perché il risparmio degli italiani finanziava i difetti del Paese, non le virtù.
Ho ritrovato, in uno scritto di Fulvio Coltorti, alcune delle osservazioni che Cingano mi fece nel corso dei nostri incontri sul tema assai controverso della banca mista. Che temeva. Era convinto che nel Paese dei conflitti d’interesse, la divisione dei compiti fosse garanzia di rigore e onestà. E non si sbagliava. Guardava con sospetto l’intreccio fra banca e industria nel quale proiettava quella diffidenza culturale sull’imprenditoria italiana attratta più dalle posizioni di rendita che dalle sfide del profitto. Fu un banchiere attento alla redditività. Sosteneva che di troppo patrimonio non era fallita mai una banca. Gli stress test della Banca centrale europea non gli avrebbero fatto paura; lo inquietava, invece, la grande corsa alle dimensioni degli istituti, nella quale intravvedeva invincibili personalismi. Una corsa che gli produsse molte amarezze: il fallimento dei tentativi di Comit di rilevare Cariplo poi finita in Intesa. E la sparizione della Commerciale, la banca che — secondo lui — non si lascia mai, per nessun motivo. Avrebbe voluto mettere insieme Mediobanca, Comit e Credit, ma restò un progetto sulla carta. Uno dei tanti. Perché le scelte del regolatore, quella Banca d’Italia al cui Governatorato fu anche tra i possibili candidati, avevano preso altri indirizzi. Anche la storia aveva preso nel frattempo altre strade. Ma Cingano non era, per educazione e carattere, il tipo da imboccare sentieri poco conosciuti lungo i quali si sarebbe sentito a disagio.