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 2013  novembre 16 Sabato calendario

LA SUPERSTITE: «LA MIA VITA NEI GULAG DI PECHINO»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Fu Yuxia non sa che cosa era l’Arcipelago Gulag sovietico e non ha mai sentito parlare di Aleksandr Solženicyn. Faceva l’operaia in una fabbrica di insetticidi. Però Fu Yuxia ha percorso la stessa via dolorosa dello scrittore russo: anche lei è stata rinchiusa in un «campo di rieducazione attraverso il lavoro», un «laojiao», come si chiamano in Cina dai tempi di Mao.
Tutto andava bene, nella sua casa di Xuzhou, provincia orientale del Jiangsu. Era sposata, aveva il suo impiego e aspettava un figlio, dice e piange quando dice figlio. Aveva anche una sorella più giovane, sposata da poco. Poi un giorno del 2000 il marito della sorella fu investito da un’auto e ci fu una lite per l’eredità. La famiglia del cognato poteva contare su un membro importante, un funzionario di un’industria statale. «Ecco, quella fu la mia sventura», ci racconta ora. E comincia a ricordare. È quasi impossibile fermarla, mentre parla in fretta, piange, grida ancora di rabbia.
«Quell’uomo era potente nella nostra città, ed era cattivo. La causa per l’eredità la vinse mia sorella, ma lui per vendicarsi ci fece chiamare dal giudice. Mi ricordo bene quando fu, era il 15 agosto del 2001. Io ero al quarto mese. Invece del giudice trovammo altri tizi, forse poliziotti, non saprei dire. Però so che ci picchiarono. Tanto forte che dopo io ho abortito. Era una trappola, perché loro filmarono la scena, ma poi cancellarono la parte con le botte, lasciarono solo quella in cui noi gridavamo, imprecavamo contro l’ingiustizia». Al telefono Fu Yuxia piange di nuovo pensando a quel bambino perso.
È solo l’inizio della storia: dopo il pestaggio Fu Yuxia diventò una «fang min», entrò cioè nel popolo delle petizioni, la povera gente che subisce un torto dalle autorità e si rivolge al governo centrale per chiedere giustizia. «Da quel giorno muovo male una gamba, mi serve una stampella. Andai a Pechino per protestare». I funzionari locali in Cina fanno molta paura alla gente, ma ne hanno anche paura: sanno che una petizione crea problemi, rovina le carriere. Quelli della sua città la misero in cella per 15 giorni. «Mi tolsero la collana, gli orecchini e l’anello, erano d’oro ed era tutto quello che avevo di prezioso. Quando uscii protestai di nuovo. Mi rimisero dentro, per 16 giorni». Poi un periodo di tregua. Yuxia restò di nuovo incinta ed ebbe un figlio. Ma i capi locali ormai non la perdevano d’occhio.
Un altro scoppio di pianto. «Nell’aprile del 2004 mi mandarono in un laojiao, per due mesi. Due mesi senza vedere il bambino». Rilasciata. Poi pensarono che aveva bisogno di essere rieducata meglio. «Mi dissero che questa volta ci sarei stata un anno, così finalmente imparavo a comportarmi».
«Ricordo bene i muri di quel campo, molto alti e sopra ci passava la corrente. Eravamo tutte donne, divise in otto squadre da novecento. Ma c’erano anche altre: le chiamavano “irregolari”, drogate, ladre, prostitute». Come si viveva là dentro? «Sveglia alle cinque, dopo le sei comincia il lavoro. Si facevano vestiti e scarpe. Qualche volta facevano fare lo straordinario, fino alle undici di notte. Io però non lavoravo, sono zoppa io. A me dicevano di cantare inni patriottici e mi ordinavano di recitare le regole...». Quali regole, si ricorda? «No, le ho dimenticate». È ancora scossa. «Con le guardie era strano, a volte ci si poteva parlare, potevo dire che avevo un bambino piccolo che mi aspettava e mi ascoltavano. Mi spiegavano che se mettevo la testa a posto, se giuravo di non andare più a Pechino con la mia petizione potevo uscire. Ma se facevo qualcosa di sbagliato, se non dicevo bene le regole, urlavano e ho preso anche altre botte».
All’improvviso, arbitraria come la condanna «discrezionale», a Yuxia dissero che era libera di andarsi a far curare a casa. Era il Capodanno cinese, anche il potere sa essere misericordioso, forse. Però, sei mesi dopo, di nuovo nel «laojiao». Dentro e fuori. La sua via dolorosa è finita senza spiegazioni nel 2011.
Ora Fu Yuxia vive a Pechino. È ancora una donna del popolo delle petizioni. Che cosa prova di fronte a questo annuncio del Comitato centrale, la promessa di chiudere per sempre i «laojiao»? «Voglio un risarcimento, per tutta l’ingiustizia, per le botte, per la stampella a cui mi debbo appoggiare, per gli anni lontano dal mio bambino. E lo voglio anche per quell’altro bimbo, quello che mi hanno ammazzato nella pancia, quello che non sapevo ancora se era maschio o femmina».