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 2013  novembre 16 Sabato calendario

LA COLLERA DELLA FRANCIA CONTRO LE TASSE DI HOLLANDE


In Francia c’è «una miscela di malcontento e di rassegnazione che si esprime in maniera eruttiva». «Il fisco è diventato la principale causa di contestazione dell’azione del governo». «Crescono i fermenti di un’eventuale esplosione». «La società è in preda all’esasperazione e alla collera». Non sono estratti di qualche documento dell’opposizione né i soliti catastrofici reportage giornalistici, ma un rapporto del ministero degli Interni, basato su quelli dei prefetti, che si è procurato il «Figaro». La Francia profonda è arrabbiatissima e dà la sveglia ai palazzi del potere.
All’Eliseo, François Hollande sa benissimo che il Paese è in collera. L’ultimo sondaggio dà il gradimento del Presidente (e del suo primo ministro, Jean-Marc Ayrault) al minimo storico da quando i sondaggi esistono: 15%. È una delle due cattive notizie di due giorni fa. L’altra, che nel terzo trimestre del 2013 il Pil è diminuito dello 0,1%, mentre secondo le previsioni sarebbe dovuto aumentare di altrettanto. Morale: la ripresa ci sarà pure, ma per ora non si vede.
Non c’è categoria, anche piccola e piccolissima, che non protesti e manifesti dimostrando quella fantasia rivoluzionaria che ai francesi non è mai mancata. I «bonnets rouges», i berretti rossi, stanno estendendo la rivolta contro l’ecotassa sui Tir dalla Bretagna dov’è nata a tutta la Francia: a oggi, sono 44 i radar dati alle fiamme davanti a folle plaudenti e poliziotti impotenti. I «berretti verdi», invece, sono favorevoli all’ecotassa ma contrari all’aumento dell’Iva sui trasporti pubblici. I «berretti arancioni» sono i proprietari dei centri equestri che hanno sfilato (a cavallo) contro il fisco.
Dai colori agli animali: ci sono «les abeilles», le api, che contestano la nuova tassa sulle assicurazioni; «les moutons», i montoni, che se la prendono con la riforma dei contributi; «les cigognes», le cicogne, cioè le levatrici che invece reclamano la riforma del loro status. A ogni buon conto, hanno scioperato per la prima volta da quarant’anni anche i veterinari. La moltiplicazione dei piani di ristrutturazione nell’industria moltiplica anche la rabbia, mentre una maldestra riforma della settimana scolastica (da quattro giorni a quattro giorni e mezzo), imposta dal dogmatico ministro dell’Educazione, Vincent Peillon, fa arrabbiare i comuni che non riescono a gestirla e infuriare i genitori che non riescono a gestire i figli. I commercianti si dichiarano «sacrifiés», sacrificati, ed espongono cartelli neri sulle vetrine.
Il premio Nobel dell’Economia, Paul Krugman, sostiene Hollande sul «New York Times» scrivendo che la Francia fa bene a difendere il suo welfare dai malvagi liberisti di Bruxelles. Ma che Hollande sia prigioniero delle sue contraddizioni è chiaro a tutti, probabilmente anche a lui. Ha vinto le elezioni dicendo ai francesi che sarebbe bastato qualche ritocco e riformina per conservare la loro eccellente amministrazione e il loro generoso Stato sociale, riducendo contemporaneamente il debito e tagliando la spesa pubblica come chiede la Ue. È chiaro che, con la crisi economica, non è possibile. Così il debito aumenta e la Francia continua ad avere un milione di funzionari pubblici più della Germania, che però ha 20 milioni di abitanti di più.
Il Président, in ogni caso, non vuole cambiare la sua politica. Forse cambierà, a malincuore, chi deve metterla in pratica, perché Ayrault appare ormai bruciato e del resto nella Quinta Repubblica se le cose vanno bene è merito del Presidente e se vanno male è colpa del primo ministro. Hollande ha due problemi: quando cambiare e con chi. Molti socialisti premono per rimpastare subito, prima delle elezioni del ‘14 (amministrative in marzo ed europee in maggio) per le quali le previsioni sono catastrofiche.
Quanto al «chi», i giornali scommettono che la poltrona di premier se la giocheranno la sindaca di Lilla, Martine Aubry, e il ministro degli Interni, Manuel Valls. Lei, la figlia di Delors, già rivale sfortunata di Hollande alle primarie, è una socialista di gauche. Lui, il Renzi francese, unico ministro davvero popolare, è così poco di sinistra che sembra quasi di destra. «Basterà?», si chiede all’Assemblée un cacicco socialista. Perplesso come tutti.