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 2013  novembre 15 Venerdì calendario

EINAUDI, OTTANT’ANNI E TRE GRANDI ANIME


«Le case editrici si misurano a decenni, non a mesi», scriveva l’8 luglio 1945 Norberto Bobbio a Giulio Einaudi, opponendosi alla «seduzione dell’attualità». Otto decenni misurano lo spessore culturale della casa editrice Einaudi; ottant’anni convulsi, devastanti e liberatori, che hanno visto una trasformazione radicale e accelerata del mondo e dell’uomo stesso, scavando fra le generazioni divari di mentalità e sensibilità come un tempo fra i secoli. Sono questi gli ottant’anni attraversati dall’Einaudi quale protagonista della cultura, intesa non come ventaglio di discipline bensì visione del mondo, della società, della vita individuale e collettiva.
La storia dell’Einaudi è un pezzo essenziale della storia d’Italia, intrecciato intimamente alle vicende politiche e culturali del Paese. Storia di idee, ardimenti, sfide, intuizioni precorritrici, scontri ideologici, errori anche pesanti. Storia di uomini; diversi, talora contrapposti ma uniti in un progetto che è stato un’arteria vitale dell’Italia. Uno dei modi più efficaci di illustrarlo è narrare la storia di questi incontri e uomini, come ha fatto Guido Davico Bonino, protagonista della seconda stagione dell’Einaudi, nell’Alfabeto Einaudi e nel recentissimo Incontri con uomini di qualità , una commedia umana di persone fatte di carne e sangue, passioni e idee, colte nei contributi spesso eccezionali che hanno dato e nelle loro individualità, bizzarrie e idiosincrasie, debolezze, nei conflitti reciproci e nel comune buon combattimento.
Quel monito di Bobbio è una divisa dell’Einaudi, che non ha certo eluso l’autentica attualità, problemi, destini, drammi che sono la nostra verità, la realtà con cui misurarsi. Bobbio rifiutava giustamente la supina soggezione di chi rincorre l’attualità come se essa esistesse a priori di per sé, dimenticando che siamo noi a crearla e a concorrere alla sua formazione, così come il voto politico deve nascere dalla consapevolezza e volontà di formare una maggioranza, non di accodarsi ad essa. La casa editrice Einaudi si è confrontata di continuo con l’incalzante attualità della nostra vita, della lotta politica, della conoscenza storica e della riflessione critica su ciò che accade e la cui comprensione esige una visione d’ampio respiro e un’indagine del percorso che ha condotto a quell’attualità. L’attualità dei fatti e di come gli uomini li vivono e li hanno vissuti ossia della letteratura; l’attualità delle nuove forme di creatività che stanno nascendo e dei classici che svelano a ogni nuova generazione un nuovo volto. Non è possibile elencare le letterature dei vari Paesi ed epoche la cui conoscenza dobbiamo all’Einaudi, la storiografia che è entrata grazie ad essa nella nostra cultura, la compresenza di classicità e modernizzazione e tante altre cose fondanti.
Questa passione dell’autentica attualità, che implica la viva e cosciente presenza del passato, corrisponde all’esigenza di Bobbio, perché si oppone ad ogni gregaria obbedienza all’ordine del giorno, alle cose di cui si deve parlare perché se ne parla, rispetto alle quali l’atteggiamento più giusto è quello suggerito da un detto viennese secondo cui «certe cose non si devono neanche ignorare», perché già ignorarle sarebbe troppo. Non si tratta di contrapporre una cultura di élite a una cultura di massa, il che sarebbe una sciocchezza, né di un aristocratico disdegno delle mode, delle grandi tirature e dei bestseller, che sarebbe altrettanto sciocco e ricorderebbe troppo la storia della volpe e dell’uva. Si tratta semplicemente di non lasciarsi infinocchiare, di distinguere fra successo e successo, rallegrandosi delle tirature di milioni se capita la fortuna di goderne ma senza credere che necessariamente esse esprimano la verità del tempo, l’attualità. La domanda di Stalin su quante divisioni militari avesse il Papa è solo stupida. Anche in passato Il piccolo alpino di Salvator Gotta vendeva tante più copie delle poesie di Saba o di Rebora, ma nessuno si sognava di pensare che esprimesse perciò la realtà profonda del tempo più di Trieste e una donna . Due secoli prima, il Robinson Crusoe di Defoe veniva tradotto in tutte le lingue possibili e la sua immensa popolarità non andava certo a scapito del suo genio.
L’Einaudi ha creato un vero stile, variegato ma inconfondibilmente unitario. Lo stile è l’uomo, si è detto; lo stile è anche e soprattutto una civiltà, un modo di essere, di lavorare, di comportarsi. Ogni classe — politica o culturale — veramente egemone crea il proprio stile, il tono del discorso di De Gasperi al Congresso della pace di Parigi o le corna che Berlusconi fa dietro la testa di un ministro spagnolo. Ogni stile ha inevitabilmente una componente autoritaria, perché esige delle cose e ne esclude altre; ogni classe dirigente, anche meritevole, ha le sue colpe, proprio perché è classe dirigente. La casa editrice Einaudi lo è stata e si è attirata le conseguenti critiche, ora oggettivamente motivate per alcuni suoi imperiosi errori ora faziosamente ideologiche o nate dalla rancorosa invidia di chi avrebbe ambìto ad entrare nel Pantheon dello Struzzo, e, a torto o a ragione, non è stato accolto.
Si accusa l’Einaudi di aver contribuito all’egemonia della sinistra, anzi del Partito comunista nella cultura italiana del Dopoguerra. Non sarebbe un illecito, perché la battaglia per l’egemonia culturale fa parte della dialettica politica. Quell’accusa colpisce dunque l’inettitudine di chi non ha saputo contrastare, come si doveva, quell’egemonia, cosa che — caduto il fascismo — era possibile, perché c’erano tante eccellenti case editrici nient’affatto comuniste né erano di sinistra i grandi organi d’informazione e tante istituzioni. Certamente la riluttanza, confessata dallo stesso Giulio Einaudi a Severino Cesari, a credere ai crimini di Stalin, più che noti ben prima del rapporto Kruscev, è stata una catastrofica e voluta cecità, non giustificabile dal clima arroventato della lotta politica mondiale di quegli anni, anche perché molti autentici democratici non se ne sono invece lasciati condizionare, restando immuni dai bacilli dell’anticomunismo reazionario e del fideismo comunista. Non bisogna tuttavia scordare la fondamentale importanza dell’esperienza comunista torinese e di ciò che Gramsci e Gobetti avevano significato, nel clima fascista, per l’idea di un possibile legame fra liberalismo e comunismo. Quando Massimo Salvadori pubblicò il suo splendido Mito del buongoverno credo fosse ancora comunista, ma quel grande libro, a più di cinquant’anni di distanza, è ad esempio ancora una pietra miliare di una conoscenza e coscienza democratica.
Identificare l’Einaudi con la sua anima comunista è ingiusto, perché implica trascurare le sue anime libertarie, quella azionista e quella liberale, quel «senato» — come veniva chiamato il gruppo più autorevole della casa editrice — tra le cui figure eminenti c’erano uomini come Bobbio o Venturi, mio professore e poi, anche se suona buffo, collega all’Università di Torino, decisamente anticomunista anche per la sua conoscenza concreta dell’Unione Sovietica. Nell’Einaudi, ad esempio, Croce era un punto di riferimento (spiritualmente «un nostro coetaneo», come diceva Ginzburg) forse più di quanto lo fosse concretamente per molti moderati. La casa editrice non ha certo pubblicato solo classici marxisti; ha diffuso la cultura giuridica di stampo soprattutto anglosassone, sale del liberalismo; la storiografia delle più varie e nuove tendenze (Braudel pubblicato nonostante l’opposizione di Cantimori); la cultura scientifica; i testi della battaglia per la riforma psichiatrica. Ha coltivato studi di storia delle religioni e del mito che hanno avuto il merito di affrontare quei terreni creativi dell’inconscio e dell’irrazionale (o di ciò che viene chiamato tale) sfatando il loro culto falsamente iniziatico, la paccottiglia travestita da sapienza misteriosofica con cui vengono spesso adulterati.
Per ragioni anagrafiche ho conosciuto la seconda stagione dell’Einaudi, quando a darle il tono erano, oltre a Giulio Einaudi e ad altri grandi collaboratori, la triade Giulio Bollati-Daniele Ponchiroli-Guido Davico Bonino, tre figure cui la casa editrice tanto deve come ai suoi leggendari fondatori negli anni drammatici; ad essi si aggiunse Ernesto Ferrero, che nei Migliori anni della nostra vita ha fermato nel tempo — con passione, ironia e commozione — un momento in cui il percorso individuale di molti di noi si sentiva in armonia col corso delle cose e soprattutto con la concreta utopia di cambiarle. Forse per me l’Einaudi è stata soprattutto Giulio Bollati, col suo genio discreto e il suo gusto infallibile, che rappresentava quasi una tutela per tutti contro le temute prevaricazioni dell’altro Giulio; se Einaudi era il padre, con tutta l’ambivalenza affettivo-autoritaria della figura paterna, Bollati era il fratello maggiore, indiscutibilmente maggiore ma fratello e dunque pari.
L’Einaudi per me è stata Guido Davico Bonino, la cui incredibile creativa produttività non andava mai a scapito di una generosa attenzione agli altri e di un’inossidabile fedeltà alle amicizie. È l’amicizia che pervade pure i suoi Incontri con uomini di qualità , miniera di notizie e narrazione epica di un tempo e di un modo di essere. C’è della leggenda nel racconto che Guido fa di come vinse le mie attonite timidezze di ventiquattrenne dinanzi alla mai immaginata pubblicazione nei Saggi del mio Mito absburgico , il libro che ha cambiato la mia vita, ma è un modo favoloso di dire la verità — in questo caso l’aiuto della sua vicinanza — come nelle parabole. Ma forse il vero spiritus rector della casa editrice — colui che la seguiva e modellava, dalle cose più importanti e raffinate a quelle minori la cui perfezione era altrettanto necessaria — era Daniele Ponchiroli. Come scrive un grande narratore austriaco pubblicato da Einaudi, Hermann Broch, la vera arte non è un «bel» ma un «buon» lavoro, fondato pure sui dettagli artigianali, sull’eleganza e lo stile di ogni particolare. Era ciò che facevano pure Roberto Cerati, altro spiritus rector , nel settore commerciale e Molina e l’impareggiabile Colombo, cui non sfuggiva l’errore di bozze di una virgola, nel settore tecnico.
Nei famosi mercoledì, che rivivono nei lavori di Tommaso Munari e soprattutto di Luisa Mangoni, c’erano i grandi «senatori», i Bobbio, i Mila, i Venturi, i Cases, per citare solo alcuni maestri particolarmente cari al mio cuore, ma c’erano anche molti altri, portatori di esperienze diverse. Talvolta vi erano, in quei mercoledì, non solo contrapposizioni polemiche ma anche tensioni eccitate e tortuose, che magari ogni tanto Giulio Einaudi si divertiva ad attizzare, così come poteva talora compiacersi di stimolare invidie e gelosie, specie fra i più giovani. Gli è stata imputata una certa prepotenza, un atteggiamento da Re Sole, ma, geniale com’era, capiva subito chi era indifferente alle manovre da Comitato Centrale e con chi non poteva permettersi alcuna prevaricazione. Sapeva essere anche realmente affettuoso, tenero e sensibile, come è stato con me in un mio momento doloroso. Credo leggesse poco, ma, simile in ciò a Saba, gli bastava prendere in mano un libro e scorrere poche pagine per capire il suo spessore e per questo è stato un eccezionale editore, che ha fatto storia. Dominava facilmente i suoi collaboratori più nevroticamente intellettuali, perché non era un intellettuale; aveva una robustezza terrigna che lo portava a vincere.
Certamente nella storia dell’Einaudi ci sono gravi errori, come ad esempio l’imperdonabile rifiuto iniziale di Primo Levi, quello altrettanto sballato di Nietzsche e altri. C’è stata anche una colpevole leggerezza economica, una finanza allegra di cui hanno fatto le spese coloro che non hanno sempre potuto ricevere il compenso dovuto. Cesare Cases, che lo amava, disse una volta, col suo caustico humour , che Giulio Einaudi avrebbe dovuto passare almeno un giorno in commissariato. Forse aveva pure una grande ingenuità, la convinzione infantile che, finché c’era lui al timone, le cose non potevano non andare alla fine bene. Ma, per citare un detto di Valentin, uno dei maestri di Brecht, nella grande stagione dell’Einaudi «il futuro era migliore» perché si credeva in un futuro migliore e di lavorare per esso.
Se questa è storia di ieri, essa continua nell’Einaudi di oggi, più che mai viva nella sua fedeltà al passato che esige nuove aperture al presente. I titoli annunciati per l’anno prossimo — Philip Meyer, Murakami, Munro, Zagrebelsky, Settis, per citare solo alcuni a caso — mostrano come questi ottant’anni non sono un consuntivo del passato ma un festoso compleanno proiettato nel futuro, che potrà forse essere migliore pure grazie a tanti altri compleanni come questo.