Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 15/11/2013, 15 novembre 2013
GLI ERRORI DEI LIBERISTI, LA PREPOTENZA DEI PRIVILEGI
Da anni, in Italia, una sparuta pattuglia di liberisti si batte per il mercato, per le liberalizzazioni e per uno Stato meno invasivo. Sostengono i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché pensano che mercati aperti e concorrenza siano gli strumenti per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, e non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo, nel mondo, sono successe alcune cose.
La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi sono poco meno di una su cinque.
Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei paesi ricchi, e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni era nel 1972, ai prezzi di oggi, di 15 dollari; è sceso a 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora.) In Occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in almeno un paio di infortuni: nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom; più tardi la crisi innescata dai mutui subprime (se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati sarebbero precipitati, come accadde negli anni Venti). Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas — l’80 per cento dell’energia utilizzata in Italia — sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità.
Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nelle recenti campagne elettorali americane i candidati (anche Barack Obama e Hillary Clinton) hanno parlato con accenti critici della globalizzazione, e si sono ben guardati dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani. In Francia il liberale Sarkozy a parole predicava il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per quattro volte un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare — con denaro pubblico — un’azienda (Alitalia) che perdeva, continua a perdere, un milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse sono state usate per tenere in piedi un’azienda decotta da anni. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il sindaco Alemanno, che anni fa aveva solidarizzato con la violenta protesta dei tassisti contro il tentativo di Bersani di liberalizzare quel servizio.) Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come i liberisti, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza.
Che cosa non hanno capito i liberisti, dove hanno sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di «concorrenza» e «mercato». Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati a uno Stato benevolente. Affinché il mercato e la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». È certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un passo in avanti. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono – e che alcuni politici promettono – è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non quella che potrebbe offrire l’Antitrust.
A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito e alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione: i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.
Il «miracolo economico» italiano degli anni Cinquanta e Sessanta fu il frutto del mercato unico europeo e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia cristiana — De Gasperi, ma anche Andreotti — che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Comunità economica europea. La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e di raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India e la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi considerano l’apertura agli scambi una minaccia, non un opportunità.
Mi pare che l’Italia si trovi in un «cul de sac». Da oltre un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il nostro reddito pro capite era simile a quello di Francia e Germania, il 27 per cento più elevato che in Spagna, il 3 per cento più che in Gran Bretagna. In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, la Spagna nonostante la crisi ha accorciato la distanza e siamo stati di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha, mentre mercato, merito e concorrenza — i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita — spaventano. I cittadini, preoccupati, chiedono protezione, qualcuno la promette e il paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina — un paese che ai primi del Novecento era ricco quanto la Francia — inizia, con Peron, proprio così.)
Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia — tentativo fatto da alcuni liberisti, me compreso — è fallito. Nel frattempo la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure promesso protezione. Ma chi ha protetto? Non chi temeva la globalizzazione — che infatti si è fatto proteggere dalla Lega — ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare quell’errore.
I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i «protezionisti» — anche il Movimento 5 Stelle: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. È un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.
Il libro che vi apprestate a leggere (o a rileggere) vi aiuterà a riflettere su molte di queste questioni. L’analisi del perché gli interessi «concentrati» tendono ad averla sempre vinta è illuminante, anche se scoraggiante. Così pure l’esempio del perché sia stato impossibile, anche negli Stati Uniti, privatizzare il servizio postale. Il capitolo sulla burocrazia sembra la descrizione di un ministero italiano. C’è quasi di che rallegrarsi, finché non si arriva al capitolo che Milton e Rose Friedman intitolano «The tide is turning» («Il vento sta cambiando»). È cambiato negli Stati Uniti, solo un anno dopo la pubblicazione di questo libro, con l’elezione alla presidenza di Ronald Reagan. E negli stessi anni in Gran Bretagna con Margaret Thatcher. In Italia non è stata sufficiente la «rivolta del Nord», né il blog di Beppe Grillo con il suo bottino di 163 fra deputati e senatori. Stiamo ancora aspettando il nostro Godot, ma che arrivi presto, altrimenti troverà solo macerie.
Francesco Giavazzi