Antonio Gnoli, la Repubblica 15/11/2013, 15 novembre 2013
EINAUDI 80 ANNI
Quel logo, uno struzzo fieramente impettito con un chiodo stretto nel becco, ha attraversato quasi l’intera storia della casa editrice. Un marchio di successo è come un simulacro la cui immagine riassume le glorie di una vita. Per Einaudi quella vita ha toccato oggi il traguardo degli 80 anni. Sul cartiglio dello struzzo è incisa una frase: Spiritus durissima coquit: lo spirito digerisce le cose più dure. Come dire? Possiamo averne passate di tutti i colori, ma alla fine le nostre scelte e il nostro lavoro, hanno avuto la meglio sulle avversità. E di avversità la casa editrice ne ha affrontate molte: gli anni ostili del fascismo, il difficile dopoguerra, la grande crisi finanziaria degli anni ’80 – quando i debiti diventarono il doppio del fatturato – il passaggio traumatico, agli inizi dei ’90, alla famiglia Berlusconi. Mentre ricordo questi avvenimenti, Ernesto Franco – direttore generale della casa editrice – ascolta paziente. Siede davanti a me e, per un momento, penso a quante volte, nel corso degli anni, questo signore – che assomiglia a Fernando Rey, l’attore prediletto da Buñuel – si è dovuto sciroppare discorsi analoghi. C’è qualcosa di tranquillizzante nella sua figura. E a proposito dello “Struzzo” mi ricorda una frase di Bobbio: «quello struzzo non ha mai messo la testa sotto la sabbia». Credo che ogni casa editrice che abbia contribuito a formare la cultura di un paese, riveli una giusta dose di orgoglio e, per chi la guida, di riconoscenza.
«Entrai a lavorare all’Einaudi il 4 marzo del 1991. Avevo fatto un anno in Garzanti e ancor prima una lunga esperienza alla Marietti. Sono diventato direttore editoriale nel 1998 e dal 2011 ricopro la carica di direttore generale». Date e titoli, forniti con sobria asciuttezza, delimitano un campo, dichiarano le competenze precise su una storia che vale la pena ripercorrere cominciando dalla fine. Da che cosa Einaudi sta preparando per “celebrare” i suoi 80 anni.
«L’iniziativa più rilevante», dice Franco, «insieme a un “premio Einaudi” che stiamo immaginando è il restyling dei tascabili, fatto all’insegna di una maggiore pulizia grafica. Vareremo una nuova collana che si chiamerà opera viva. L’espressione ha un uso marinaro e sta ad indicare quella parte dello scafo della nave che, immersa nell’acqua, determina la linea del galleggiamento e al tempo stesso sopporta la vivacità del mare. Ecco, i libri che pubblicheremo in questa collana dovranno “navigare” nel grande mare della quotidianità, trovando rotte di percorrenza e correnti che ne facilitino la mobilità».
«Inoltre, anche le navi più solide », prosegue Franco con le sue metafore marinare, «hanno bisogno di passare un certo tempo nei cantieri per essere revisionate e messe in condizione di affrontare nuovamente il mare. Con questo intento abbiamo messo a punto il progetto di revisione di alcune grandi traduzioni: Dostoevskij, Stendhal, Dumas (con Il conte di Montecristo, titolo da noi mai proposto), Moby Dick nella nuova traduzione di Ottavio Fatica o quella del Giovane Holden portata a termine da Matteo Colombo ».
Mentre Franco elenca titoli e autori, penso che davvero per una casa editrice la traduzione sia il banco di prova: un sottile confine tra passato e presente che va tenuto in perfetto equilibrio: «Personalmente, più che quella differenza, farei riferimento alla distinzione tra il nuovo e la novità. Intendendo per nuovo il valore in grado di superare il tempo e per novità tutto ciò che è dentro la nostra contemporaneità e che Benjamin identificava con la moda ».
Ecco una parola, moda, da maneggiare con cautela. Nel momento in cui la pronunci, nel momento in cui la sposi, la moda è già passata. «È vero, nella moda è sempre in agguato l’effimero. Ma un editore, come un nomade, deve sapersi spostare con il proprio tempo. E noi abbiamo la vocazione a interpretare il nostro tempo anche con le cose più deperibili. C’è una piccola storia che per me ha sempre descritto bene il senso di una casa editrice come Einaudi. La racconta, nel libro L’autore e il suo editore, Siegfried Unseld. Quando prese il posto di Peter Suhrkamp, ricevette una lettera da Herman Hesse. Lo scrittore gli diceva che, sì, d’accordo, un editore deve stare “al passo coi tempi”, adeguarsi al momento, ma deve anche sapervi resistere, quando è necessario. Nell’adeguamento e nella resistenza critica consiste il lavoro del buon editore, “il ritmo alterno – scrisse Hesse – della sua respirazione”».
Forse è per questo che Einaudi non ha mai dimenticato il suo passato e anzi lo coltiva gelosamente attraverso le figure che ne hanno fatto il successo. Franco ne cita alcune: «Anzitutto Leone Ginzburg, il fondatore intellettuale della casa editrice. Morì, come si sa, trucidato dai nazifascisti. Cesare Pavese: un genio matto dell’editoria, il contrario del monumento che gli hanno fatto. Elio Vittorini: un intellettuale fuori dal coro che sapeva rompere il gioco interno delle prevedibili alleanze. Italo Calvino: nessuno come lui ha saputo prendersi cura dei libri degli altri. La sua individualità creativa era messa al servizio delle altre individualità. Giulio Bollati: aveva una visione completa della casa editrice e un’idea precisa della forma libro. Fu un uomo di grande magistero ».
Lo interrompo. Per chiedergli se è vero che Einaudi, forse unica volta nei rapporti con i collaboratori che si sceglieva, subiva l’autorità intellettuale di Bollati: «Non ne ho idea, sinceramente. Erano i due “Giuli”, due sponde diverse ma entrambe sicure. E vorrei infine citare Roberto Cerati, che ha compiuto 90 anni ed è la memoria storica della casa editrice. Fu lui a ripensare il rapporto con le librerie e ad inventarsi il rateale».
Le scelte di Cerati permisero il decollo della Storia d’Italia e in seguito delle altre “Grandi opere”. Il successo commerciale, fu lusinghiero. Anche La storia di Elsa Morante vi contribuì: uscì nel giugno del 1974 e vendette più di un milione di copie. Poi, l’eccesso di sicurezza, gli errori commessi nella strategia editoriale, avvitarono la casa editrice in una pericolosa spirale finanziaria. Pare che Einaudi sconfortato disse a Cerati: «Più vendiamo, più perdiamo ». Erano saltati i costi industriali. E con loro, ben presto saltò per aria, il fondatore stesso. Vicenda nota e traumatica. Andò via, per quella crisi, Italo Calvino. E diversi consulenti prestigiosi, come Claudio Magris. E in seguito, nella seconda metà degli anni Novanta, quando giunse la famiglia Berlusconi, lasciarono Carlo Ginzburg e Corrado Stajano: «scelte rispettabilissime anche se da me non condivise. Perché ho sempre pensato che la vera proprietà intellettuale della casa editrice sia sempre stata degli autori e non dell’azienda», puntualizza Franco.
Nella seconda metà degli anni Novanta, la casa editrice ha trovato le forze per ricompattarsi. La nascita di “Stile Libero” nel 1995 aggiunse nuova linfa: «Con un modo originale di intrecciare i generi, Severino Cesari e Paolo Repetti hanno spostato l’idea stessa di tradizione sulle soglie del contemporaneo. Ma anche la narrativa straniera, affidata ad Andrea Canobbio, è diventata nel corso di questi anni uno dei punti di forza. Tre Premi Nobel negli ultimi quattro anni e sette negli ultimi dieci».
A proposito di numeri, Einaudi pubblica circa 300 titoli l’anno. Un centinaio nei tascabili, una settantina nella saggistica, il resto tra letteratura, poesia e classici. Non ci sono più i famosi incontri del mercoledì. Non ci sono più i nomi leggendari di Cases, Cantimori, Bobbio, Fruttero e Lucentini, Venturi, tanto per citarne alcuni. Il loro posto è stato preso da nuovi redattori ed editor: Carlo Alberto Bonadies, Mauro Bersani, Paola Gallo e Dalia Oggero, Andrea Bosco, Antonella Tarpino, Maria Teresa Polidoro, Irene Babboni: «sono loro, insieme ad altri, il fulcro della casa editrice. Una redazione formata da individualità forti». Ce ne è bisogno. Perché mai come in questo momento il libro sta vivendo una trasformazione epocale. E una crisi assai seria (lo ricordava qualche mese fa su queste pagine Ricky Cavallero, amministratore delegato del gruppo). Ma in fondo oggi raccontiamo un compleanno e i pensieri più tristi restano in fondo al cuore.