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 2013  novembre 15 Venerdì calendario

GINO PAOLI FA A PEZZI IL VALLE OCCUPATO


Conciso e concettoso: «Non accettiamo ac­cuse di illegalità da chi è chiaramente il­legale ». Come presidente della Siae, Gino Paoli seppellisce la farsa del Teatro Valle di Roma, occupato tre anni fa da attori e registi in nome della libertà di espressione e ormai diventato un simbolo della casta al contra­rio: pretendere tutto e non ri­spettare nulla. Il solito giochet­to coccolato dall’intellighenzia che sa bene come vanno le cose in Italia: è meglio non chiedere il rispetto delle regole per non passare come reazionari o peg­gio. Così al Valle dal 2011 è anar­chia pura. E illegale. E ridicola. Ieri, tanto per dire, hanno orga­nizzato un convegno dal titolo surreale «Tuteliamo gli autori o la Siae?». Detto da loro che non pagano nulla sembra una bar­zelletta, se di mezzo non ci fos­sero commissioni insaldate che provocano enormi danni ai creditori, compresi ovviamen­te anche gli autori delle opere in scena. Un controsenso. Difat­ti la Siae ha subito replicato con un durissimo comunicato, che Gino Paoli, sempre acuto, com­menta così: «Mi ricordano - di­ce riferendosi agli occupanti - i “figli di papà” di Valle Giulia che, in nome del popolo, pic­chiavano i poliziotti, ossia i veri figli del popolo. Pasolini l’ave­va notato, tra tante polemi­che ». A parte il mancato paga­mento dei diritti d’autore, spie­ga Paoli che è da poco presiden­te della Società Italiana Autori ed Editori, il collettivo del Tea­tro Valle «gode di vantaggi arro­ganti perché non rispetta le re­gole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna mi­sura di sicurezza per autori, tec­nici e spettatori».
Impossibile smentire.
Se si pensa alla coerenza del­la storia artistica e politica di Gi­no Paoli, eletto deputato nel 1987 tra le file del Pci senza es­serne iscritto ( andò nel Gruppo Indipendente di Sinistra), le sue parole sono l’epitaffio di una delle più strumentali e ipo­crite violazioni nella storia del teatro italiano. E sono anche uno schiaffo ai silenzi (sempre più imbarazzati) dichi suppor­ta quest’anomalia e non chiede di sanarla. «Chi continua a ca­valcare la tigre del populismo difendendo il Valle o non cono­sc­e la realtà oppure è in malafe­de. Quando una cosa è illegale qualcuno dovrebbe interveni­re. Perciò mi rivolgo, come pre­sidente Siae, alle istituzioni a partire dai presidenti di Came­ra e Senato ». Un appello che ar­riva proprio all’indomani della sorprendente esclusione della Siae da un convegno in Senato sulla libertà di informazione.
Strana storia, questa del più te­atro più antico ancora in attività a Roma, che sembra il canto del cigno di quel frigido movimenti­smo post sessantottino infettato di utopia. Nel 2011, quando i lavo­ratori dello spettacolo lo hanno occupato per garantire traspa­renza e bilanci pubblici, il Valle ha addirittura preso il Premio Speciale Ubu «per l’esempio di una possibilità nuova di vivere il teatro come bene comune».
Applausoni.
Poi, pian piano, chi davvero come Giorgio Albertazzi non deve rispettare contiguità o ade­renze ideologiche, ha comin­ciato a prendere chiaramente le distanze: «Chi occupa fa an­che le regole? No, non mi con­vince ». E dopo di lui anche altri mostri sacri come Pino Quartul­lo, Armando Pugliese e Marco Lucchesi. Però neanche una ri­sposta dalle autorità. Perciò, nell’indifferenza pressoché ge­nerale della cultura italiana, il collettivo del Valle è arrivato a sfiorare la megalomania attac­cando pure la Siae che è nata nel 1882 grazie, tra gli altri, a Ed­mondo De Amicis, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci e Giuseppe Verdi ed è legittimata dalla legge sul diritto d’autore del 1941. Con tutte le pecche e i limiti del caso, come spiega Pa­oli, «alla Siae aderiscono oltre centomila autori ed editori che pagano le tasse e da 131 anni ali­mentano la cultura». È arrab­biato come raramente si arrab­bia. E ricorda l’esempio del sin­daco Cofferati che a Bologna nel 2005 fece sgomberare le ca­se occupate: «Fu massacrato dalle critiche, a dimostrazione che in Italia spesso fa comodo tollerare l’illegalità». Messag­gio chiaro, talmente chiaro che rimbomberà forte anche a Mon­tecitorio e Palazzo Madama. E forse è il momento giusto.