Walter Barberis, La Stampa 15/11/2013, 15 novembre 2013
CHE COSA DIGERISCE LO STRUZZO
Esattamente ottant’anni fa, il 15 novembre 1933, Giulio Einaudi iscriveva la sua impresa editoriale alla Camera di Commercio di Torino. Rilevava anche la testata di una rivista accademica, La Cultura, che era stata diretta da Cesare De Lollis e che contava di trasformare, con l’aiuto di Leone Ginzburg, in uno strumento di dibattito culturale. Questa rivista aveva un marchio: uno struzzo con un chiodo nel becco, sovrastato da una iscrizione in un cartiglio «Spiritus durissima coquit». Il giovane Einaudi assunse quel marchio come emblema della sua nuova casa editrice, alludendo al fatto che in anni di fascismo trionfante si potesse suggerire l’idea che vi erano gruppi intellettuali capaci di digerire anche le cose più dure e spinose, in attesa di tempi migliori. I fascisti, anche i più ottusi, se ne accorsero, tennero d’occhio l’intero gruppo che stava attorno alla impresa einaudiana e di lì a poco misero tutti in carcere.
Ma da dove veniva quell’immagine dello struzzo? E che significato aveva in origine? Con precisione, nessuno ne dette una spiegazione chiara, salvo il fatto che si trattava di una «impresa», cioè un motto illustrato, da attribuirsi alla mano di Paolo Giovio, un umanista e storico che aveva vestito i panni dell’uomo di Chiesa e che aveva operato con gran fama nella prima metà del Cinquecento.
In effetti, il libro con le Imprese di Giovio apparve a Lione in prima edizione nel 1559, sette anni dopo la morte del suo autore. E alle pagine 82 e 83 di quel volume compariva il fatidico struzzo: ma con una didascalia che rivelava una storia di sangue e di politica tipica della Roma papale cinquecentesca, non esattamente coincidente con il senso che si volle dare al motto successivamente.
Rivelava il Giovio che quella immagine e quelle parole - «spiritus durissima coquit» - erano state concepite per un signore, Girolamo Mattei Romano, appartenente a una di quelle importanti famiglie che radicavano il loro potere sul patrimonio fondiario e su solide alleanze con la curia romana e col Papa in persona. Era successo che il fratello del Mattei, tal Paoluccio, fosse stato ucciso nel corso di una lite da un altro Girolamo, nipote del cardinale Della Valle, potente rappresentante di una famiglia mercantile in ascesa che aveva legato le proprie fortune al pontificato di Leone X. A detta del Giovio, il Mattei era uomo paziente, perseverante, risoluto, intelligente e capace di attendere il turno della sua vendetta. Cosa che avvenne regolarmente: il Mattei attese, ma colpì e uccise a sua volta l’assassino di suo fratello.
Il tempo che intercorse fra l’offesa subita e la vendetta si volle rappresentato dallo struzzo, capace di «smaltire ogni grave ingiuria col tempo», beninteso non nel segno di un perdono cristiano, bensì con la più classica e sanguinosa delle ritorsioni. La sua tardiva quanto inesorabile vendetta fu giudicata «nobile» dalla società dell’epoca; e il Papa stesso volle intervenire per riportare la pace tra due famiglie che, con la dignità della porpora, rappresentavano il fior fiore della aristocrazia pontificia. Clemente VII, successore di Leone X, valutò che i Mattei e i Della Valle dovessero concordare con quella vendetta la chiusura della faida e sigillare una pace duratura. Nominò anche Girolamo Mattei, il vendicatore con le mani ancora lorde di sangue, capitano della sua guardia a cavallo. E la questione si chiuse. L’eco di quegli avvenimenti si spense. E verosimilmente non piacque che la prima edizione delle Imprese del Giovio riportasse alla luce le vere ragioni del chiodo nel becco dello struzzo. Tanto che, pochi anni dopo, nel 1561, in occasione della seconda edizione, tutta quella storia sparì e la spiegazione si edulcorò in un più generico «Divora lo struzzo con ingorda furia il ferro, e lo smaltisce poi pian piano, così […] smaltir fa il tempo ogni maggiore ingiuria». Le più alte personalità della curia romana mettevano definitivamente una pietra sopra quella ormai lontana vicenda di omicidi e risolvevano nel segno della pazienza e della resistenza la valenza simbolica della digestione dello struzzo.
Ed era quella la versione destinata ad affermarsi, proseguendo la sua vulgata fino a oggi. Non è infrequente, anche di questi tempi, nel rigore di una crisi economica che raffredda i conti economici di tutta l’editoria italiana, sentire voci che nei corridoi dell’Einaudi, con senso di realismo e di orgoglio, di fronte a un ennesimo premio Nobel che incorona un autore della Casa, riprendono il vecchio motto: «Spiritus durissima coquit». Anche oggi l’attesa della rivalsa aleggia fra le stanze di via Biancamano: ma più semplicemente aspira a un ritorno del benessere generale e di una più larga disponibilità alla lettura.