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 2013  novembre 15 Venerdì calendario

GIGI PROIETTI

Il dopoguerra a cinghia stretta e cappotti rivoltati. I fumosi night club, la coppia con Carmelo Bene. Il mago dell’one man show
si confessa in un libro. E, per Sette, con un amico molto speciale (Walter Veltroni) –
Gigi Proietti, in verità si chiamerebbe Luigi ma a noi romani la elle fa un po’ fatica e se si può risparmiare una lettera non è mica poco, ha scritto un libro (Tutto sommato. Qualcosa mi ricordo, Rizzoli) in cui racconta molte cose della sua vita. È un libro divertente, anche comico. Racconta della sua famiglia, dei suoi quartieri nella Roma che si risveglia dopo la sberla della guerra, della sua scuola con le sezioni divise per lettere alfabetiche, socialmente decrescenti, che alludono, insieme, al censo degli alunni e alla qualità dei professori. Di quando si iscrisse, anche per rinviare il militare, a giurisprudenza e del clima effervescente di quegli anni ottimisti: «Il muro dell’università era pieno di foglietti svolazzanti, io li spulciavo uno dopo l’altro avidamente e lasciavo il mio nome dappertutto. Corso di ceramica creativa? Sono creativo, mi ci iscrivo. Corso di basket? Sono alto, ecchime! Corso di respirazione meditativa? La mente ce l’ho i polmoni pure, ci vado subito...». Fino a che non si iscrisse al Cut, il Centro universitario teatrale, e la sua vita cambiò.
Ci conosciamo da anni e io gli voglio un gran bene. Ha talento e ama la gente, due doti rare in una persona sola. Non ha conti da regolare con la vita e il fragore contagioso della sua risata allude a una virtù che ho sempre ritrovato in tutti quelli che hanno vissuto la guerra o la ricostruzione da bambini: un grande amore, quasi epicureo, per la vita. Per gli amici, per lo sport, per il cibo, per gli scherzi. E per l’amore, per la politica, per ogni forma di passione; quelle che colorano le giornate, che danno senso al tempo. Persone al riparo dal più micidiale dei mali, epidemia più moderna che antica, la tetraggine egocentrata e cinica che fa vivere male.
Una generazione che ha vissuto, dopo la grande paura, di speranze. Oggi invece, dopo le grandi speranze, si vive di paure.
«Tutto sommato ci siamo divertiti. Abbiamo faticato, stretto i buchi della cinta dei pantaloni, girato i cappotti di fratello in fratello, faticato a farcela, abbiamo cantato nei night club fumosi e recitato nelle cantine più fredde ma alla fine, quasi sempre, chi aveva talento è riuscito e gli altri non possono dirsi di non averci provato», mi dice mentre parliamo del suo libro.
Cominciamo parlando di Kean. Recitare la parte dell’incredibile attore dell’Ottocento inglese, genio e ubriachezza, è considerata una delle imprese più difficili per chiunque salga su un palcoscenico. Lo ha fatto Gigi, con grande successo. E prima di lui un suo grande amico, Vittorio Gassman. E tutti e due sono stati anche eroi popolari. Gigi è stato Mandrake in Febbre da cavallo e Vittorio fu Peppe er Pantera in I soliti ignoti. Gigi il Maresciallo Rocca e Vittorio il brigante Brancaleone.
E in fondo è questa, parlando di Proietti, la cifra della sua vita di uomo di spettacolo. Cercare il punto di congiunzione tra la qualità e il gusto del pubblico. Mi viene in mente Arbore, parlando di televisione: il pubblico considerato non un fastidio ininfluente ma la ragione stessa di quella forma di comunicazione che è la produzione artistica.
«Per questo Kean e Mandrake possono coesistere. E si passa ininterrottamente dall’uno e dall’altro, come in un viaggio permanente, per scovare il maggior numero di persone che possano vedere la cosa che ti sembra, magari sbagliando, la più bella possibile. E per questo il grande teatro popolare non è un singolo spettacolo, ma uno spazio, un luogo aperto».
Ci ricordiamo insieme il mitico Teatro Tenda di Carlo Molfese, dove faceva freddo eppure si stava bene. Dove hanno cantato a lungo Lucio Dalla e la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Dove ha recitato Benigni, che chiedeva al pubblico di indicare le parole sulle quali avrebbe costruito il suo monologo.
E dove Gigi portò cinquecentomila persone, una marea, a vedere un “one man show” che si chiamava A me gli occhi, please. Perché Gigi gli spettatori li ha sempre cercati e sempre trovati. Oggi la sua creatura è il Globe Theatre, anch’esso spazio inusuale, dove più di cinquantamila persone ogni estate fruiscono di Shakespeare in un luogo filologicamente adatto.

Saluti cari. «Cultura di massa e qualità non sono nemiche. Quanto ci ha messo la sinistra a capire che la televisione non era uno strumento del diavolo? Ho recitato nel Circolo Pickwick di Ugo Gregoretti. Era sperimentazione e grande racconto insieme. La tv ha grandi potenzialità ed è diventata il centro di tutto. Shakespeare sapeva che il suo pubblico conosceva gli eroi mitologici che citava nelle sue commedie. E quindi andava a colpo sicuro. Oggi, sul palcoscenico, se vuoi trovare un esperanto per il pubblico non puoi citare il Minotauro ma Marzullo. Ecco perché è importante che la televisione sia luogo di intelligenza non pedagogica. Chi la governa abbia fiducia che elevando la qualità dell’offerta si potrà elevare anche quella della domanda. Per questo, nel tempo della cultura di massa, non bisogna mai smettere di cercare. Vittorio, quando impazzava il teatro di avanguardia e di ricerca disse la famosa frase: “Sospendete le ricerche”. Io l’ho fatto quel teatro e ne sono fiero: con Cobelli, con Calenda, con Quartucci. E poi con Carmelo Bene. Che coppia eravamo! Una volta gli proposi di recitare al Sistina. Gli brillavano gli occhi all’idea. Invece proprio il Sistina mi alienò una parte del consenso dei critici del “teatralmente corretto” che vedevano come una contraddizione il fatto che un attore che era passato da Gombrowicz, cognome che dava tono anche solo a pronunciarlo, fosse poi finito tra gli spettatori di Garinei e Giovannini, oggi giustamente rimpianti. Il teatro è uno. Non bisogna mettere steccati tra i generi, non bisogna coltivare divisioni ideologiche tra il teatro di parola e quello gestuale. Con l’aberrazione di un confine quasi morale che definisce puro e impuro chi fa l’uno o l’altro. Una volta, al Teatro Tenda venne in camerino una critica affermata, una di quelle delle riviste patinate, che mi chiese, un po’ schifata, cosa fosse per me il “Teatro popolare”. Io le risposi gentile che era difficile definirlo e le domandai, a mia volta: “Per lei Shakespeare è teatro popolare o no?”. Lei mi guardò stupita e mi rispose con una smorfia: “No”. “La saluto caramente, quella è la porta”, le dissi io. È un’idea aristocratica della cultura. Il bello a pochi, il brutto a tanti. Un’idea di classe, come le sezioni A e H del mio liceo. Ti ricordi quando a Roma, tu sindaco, si organizzò il Don Giovanni con me e Il flauto magico con Claudio Bisio a piazza del Popolo? Alcuni storsero la bocca. Ma era la stessa opera, stessa orchestra e stesso direttore Gelmetti, che suonava al Teatro Costanzi per gli abbonati e il pubblico pagante. Vennero centomila persone, dalla Garbatella o da Torre Maura, famiglie intere stettero in silenzio rapite, per Mozart. Io sento questo come uno dei compiti che la fortuna della mia vita mi ha assegnato. Bellezza e popolo, insieme».

Il privilegio della democrazia. Nel libro Gigi racconta tre Italie, nelle quali si è trovato a passare, come fossero tre piazze circostanti. La prima è quella degli anni in cui si pensava, come dice nel libro, «che le cose avrebbero solo potuto migliorare». A quel tempo Proietti dedica pagine affettuose, in bianco e nero. C’è l’affamato ottimismo di un tempo improvviso di pace, le lenzuola alle finestre e le grida nel cortile, le radio grandi e gli stomaci vuoti. Ci sono le nottate nei locali notturni, con pubblici interessati più alle entraîneuses che allo swing. «Noi il gramelot – quella tecnica di espressione teatrale fatta di parole senza senso ma dal suono allusivo, che nasce come un linguaggio consentito ai mimi – lo sapevamo prima di studiarlo. Quando suonavo nei night club chi le conosceva le lingue? Cantavamo una canzone Eclipse de luna y de cielo in cui per tutto il brano dicevamo solo le due parole del titolo. Tanto quelli non se ne accorgevano. Le ragazze del locale, che prendevano la percentuale sui tappi di champagne, avevano capito prima del tempo la logica dell’economia moderna. Pensa che mondo! Nel Sessantotto ci si rivoltava contro il consumismo, oggi dobbiamo incentivare i consumi per non andare a picco».
Poi gli Anni Sessanta, che cominciano con il sorriso e finiscono con le bombe. Sole e Luna. «Stavamo stretti, in quella società. Eravamo diventati tanti e non ci bastavano più pane e pasta. Mi ricordo l’emozione quando un corteggiatore di mia sorella, che faceva il “varecchinaro”, cioè vendeva barattoli di varechina al dettaglio, si comprò la Seicento. Tutto sembrava possibile. Io difendo il Sessantotto, c’era una grande energia. C’era voglia di capire, di parlare, di stupire. Confusione tanta, ma passione febbrile e tutto vissuto collettivamente. Il teatro del Birignao veniva dissolto da geni come Peter Brook, come Bob Wilson, come il Living Theatre. Ma poi anche quella libertà divenne ideologia e finì. Come finisce tutto quello che è chiuso in recinti troppo alti».
Il nostro tempo appare a Gigi come quello in cui è in corso una disperata “ricerca di identità”. «È come se non avessimo saputo intendere il privilegio della democrazia. Come se la stessimo sprecando. Il fascismo è durato vent’anni e ha definito un’identità, pur tragica e livida. Lo stesso fece il New Deal negli Usa. Noi oggi sembriamo delle anime in cerca di sé».
Gli propongo un paragone che condivide: è come se i tre tempi che lui racconta nel suo libro, che sono le tre stagioni del dopoguerra italiano, fossero come l’evoluzione del consumo. Dal negozietto sotto casa al supermercato degli Anni Sessanta, ai giganteschi centri commerciali di oggi, dove si trova tutto e ci si perde.

Racconto popolare. «Nun je da retta Roma», cantava Gigi in una Tosca cinematografica in cui si sentiva forte il pesante influsso degli anni delle stragi terroristiche. E ora la tua, nostra città, a cosa non deve dare retta?
«Al mito della velocità. Tutti corrono e fanno mille cose correndo. Mandano sms mentre guidano. Usano l’iPad mentre fanno le analisi del sangue. Correre per dove? E poi mi fa tristezza la Movida. La festa per obbligo, l’allegria per convenzione. Vorrei tessere l’elogio della noia, lo spazio in cui si allena la fantasia. E il tempo perso, quello della passeggiata con un amico per andare in un “non posto”. E lo sberleffo gratuito, la comicità naturale, cinica e irriverente dei romani. Mi viene in mente quel disgraziato che in un night club, mentre io avevo intonato una canzone straziante che cominciava con “So’ stato carcerato”, approfittò di una pausa e disse “Poco!”. Roma è sempre stata così. Non deve perdere la voglia di divertirsi».
Gli chiedo perché abbia scritto il libro. «Perché non potrei vivere senza ascoltare e raccontare. Mi piace il teatro di Paolini, Celestini, Baliani, perché loro raccontano storie e così evitano che i fili si spezzino. Il racconto è, per definizione, popolare. È gioco, è storia, è allegria e pianto. Il racconto è la vita. Tutto qui».
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