Gian Antonio Stella, Sette 15/11/2013, 15 novembre 2013
MICHAEL DOUGLAS– IL PADRE INGOMBRANTE E IL FIGLIO IN GALERA. I VIZI VERI E QUELLI INVENTATI
MICHAEL DOUGLAS– IL PADRE INGOMBRANTE E IL FIGLIO IN GALERA. I VIZI VERI E QUELLI INVENTATI.
LE RADICI RITROVATE E LA MOGLIE MAI LASCIATA. VITA SPERICOLATA DI UN DIVO DI HOLLYWOOD –
«E poi voglio una fossetta sul mento», dice a un certo punto Matt Damon. «Ma Scoooott!», gli risponde il sulfureo chirurgo estetico che deve cambiargli faccia per farlo somigliare tutto all’amante, il leggendario Lee Liberace: «Lee non ha la fossetta sul mento…». E magari non tutti se ne accorgeranno ma in quella battuta nel copione c’è l’omaggio alla fossetta più famosa del pianeta. Quella di Michael Douglas, che la ereditò a sua volta dal padre Kirk Douglas.
Un omaggio meritato. Perché dopo aver interpretato lo spregiudicato finanziere Gordon Gekko in Wall Street, l’impiegato psicopatico in Un giorno di ordinaria follia e tanti altri personaggi controversi, ambigui o spiazzanti, Michael Douglas ha sfidato tutti. Indossando nel film Dietro i candelabri, in arrivo in Italia, i panni chiassosi, coloratissimi, spropositati di quel pianista americano, figlio di un operaio italiano immigrato da Formia e di un’attrice teatrale immigrata dalla Polonia, che per molti anni fu l’artista dal cachet più alto del mondo. Una specie di Renato Zero dagli strepitosi virtuosismi alla tastiera, dagli irresistibili dialoghi in grado di affabulare il pubblico come nessun altro, dagli abiti scintillanti e impossibili, per esempio una morbida pelliccia bianca dallo strascico interminabile che pesava quanto un’incudine.
È la storia di una vita intera sopra le righe. Segnata dalla fragilità umana e insieme da una vanità gonfia come un soufflé: «Se io non sono Rubinstein, anche Rubinstein non è Liberace». Un’esistenza consumata in una miriade di rapporti gay, celata da autobiografie in cui si spacciava per un irresistibile dongiovanni, segnata dalle querele a chi accennava alla sua omosessualità e conclusa con la morte per Aids.
Insomma, un personaggio a due facce. Che spaccava e spacca. Capace di mandare in delirio i fans e insieme di irritare i benpensanti. Proprio per questo era diventato da anni, per Michael Douglas, una fissazione: «È dal 1999 che avevo in mente di farlo. Stavo facendo il film Traffic e Steven Soderbergh, il regista, un giorno che gigioneggiavo un po’ facendo le mossette mi ha detto: “Hai mai pensato di fare Liberace? Saresti proprio quello giusto…”».
Lei lo conosceva?
«Liberace? Certo che lo conoscevo. Era un fenomeno. Quell’osservazione di Steven mi restò qui, in testa. Poi ce ne siamo dimenticati. Per anni. Finché nel 2008 Steven venne da me con un testo magnifico. Mi disse che Matt Damon voleva fare la parte di Scott Thorson, l’amante di Liberace che aveva raccontato la loro storia d’amore in un libro».
E lei?
«Ho risposto che era un’idea fantastica. Un personaggio fantastico. Poi c’è stato il problema del cancro alla gola e la cosa si è arenata. Mandarono il copione agli studios e gli studios dissero che no, non gli interessava. Forse perché era una storia di gay. Di amori omosessuali».
Allora è vero che Hollywood, sotto sotto, è ancora ostile a questi temi…
«Mah, non so…».
Fatto sta che rifiutarono il soggetto.
«Non so se fosse quella la ragione. Conoscendo gli studios e il tipo di film che amano fare magari era solo un soggetto sul quale non volevano investire. Poteva essere un film indipendente. Ma voleva dire lavorare gratis e poi promuoverlo… Una scommessa complicata. Ci siamo detti: no, troppi soldi. Troppi…».
Quindi?
«Alla fine ce l’ha prodotto Hbo, Home Box Office. La tv via cavo. Per la televisione. Garantendoci almeno 6 milioni di spettatori. Poi in realtà lo hanno visto in 16 milioni. Dico: sedici milioni! Un grande colpo!».
E la reazione del «suo» pubblico?
«A loro è piaciuto tantissimo. Mi conoscono. Sanno di potersi fidare…».
Dappertutto? Anche nei Paesi più chiusi…
«Sono sempre curioso di vedere le diverse reazioni all’estero. Nei Paesi anglosassoni, dall’Inghilterra all’Australia, è andato benissimo. Malissimo in Francia. Un risultato terribile. In Germania un trionfo. Quando mi chiede della questione omosessuale dovrebbe girare la domanda alla Francia».
Qualche Paese l’ha rifiutato, il film?
«Non che io sappia…».
Certi Paesi musulmani, per esempio.
«Ma sicuro! Non conosco i dettagli perché in questo caso faccio l’attore e non il produttore ma ci saranno sicuramente tanti posti dove non vogliono vederlo».
Ha tenuto qualche “vestitino” di Liberace?
«Scherza? Sono importabili. Ce ne siamo fatti prestare diversi dal suo museo a Las Vegas. Qualche mantellina pesava venticinque chili. Era un uomo grosso. Forte…».
Liberace ha una cosa in comune con altri personaggi che lei ha fatto: l’eccesso.
«Cioè?».
Uomini “troppo»: troppo spregiudicati, troppo stressati, troppo presi dal sesso o dalla violenza…
«Dice? Non credo sia così per tutti i miei film».
Non tutti: molti.
«Sì, forse è vero...».
Quanto tempo passava al trucco, ogni giorno, durante le riprese, per entrare nei panni di Liberace?
«Di solito due ore e mezzo».
Una penitenza...
«C’erano giorni in cui giravamo due scene di parti diverse del film, e magari in una io e Matt dovevamo essere magri e nell’altra grassi. E le ore diventavano cinque. Anche sei».
Si è divertito?
«Moltissimo. Matt è stato fantastico».
Nessun imbarazzo, nelle scene d’amore?
«Nessuno. Ci siamo guardati e gli ho detto: hai letto la sceneggiatura del libro di Scott? Diamoci da fare».
Eppure non deve essere stato facile…
«Eravamo in buone mani. Il produttore, il regista, tanti amici... Senza di loro non avremmo mai potuto farlo. Avevamo già lavorato con Soderbergh. Potevamo fidarci… Mi hanno fatto un regalo bellissimo».
In che senso?
«Quando ho avuto il cancro una parte di me era convinta che non avrei più lavorato. Che fosse finita. Loro, Steven e Matt mi hanno aspettato. Finché sono diventato abbastanza forte da poter cominciare Dietro i candelabri. È stato davvero un regalo, aspettarmi. Me l’hanno servito sul piatto».
Ho letto che sua moglie Catherine proibiva ai suoi figli di vedere tutti i suoi film e perfino Alla scoperta di Charlie perché fumava delle canne e diceva parolacce: quando vedranno Dietro i candelabri?
«L’hanno già visto. Sono cresciuti, rispetto a quando Catherine lo disse. Dylan ha tredici anni e Carys dieci. Sono abbastanza grandi per capire. Mi avevano fatto visita sul set… Non è stato un impatto brusco. Certo non è come vedere i telefilm di Spartacus…».
Gli ha fatto vedere anche Basic Instinct?
«No. Basic Instinct no. E neanche Rivelazioni con Demi Moore». (Ride).
E Un giorno di ordinaria follia», così carico di violenza?
«No, quello neppure».
È ancora così impegnato nella guerra alle armi?
«Certo. Dalle pistole alle armi nucleari».
Pensa che Obama ce la farà a vincere la sua guerra contro la vendita facile delle armi automatiche?
«No. Non credo che ce la farà. Forse riuscirà a fermare la libera vendita dei proiettili perforanti, dei fucili d’assalto, dei mitra ma…».
Delle pistole no?
«Mah… Spero riesca a ridurre le armi nucleari. Spero… Anche se (rispetto alle promesse, ndr) c’è stata una grande delusione».
È vero che papà aveva in casa un rifugio antiatomico?
«Sì».
Ha avuto un peso, questo, nelle sue battaglie contro il nucleare?
«Credo di sì. Anche se non era solo papà ad avere il rifugio. C’è stato un periodo, negli Anni 50, in cui erano in tanti, a farselo. Alle elementari facevamo addirittura delle esercitazioni: se la luce cominciava a tremare dovevi nasconderti sotto il banco. Ci sono altre cose, però, che mi hanno spinto in queste battaglie».
Cioè?
«Mio padre Kirk è nato in America ma mio nonno, Herschel “Harry” Danielovitch, veniva dalla Bielorussia. Quando sono andato a cercare la storia della mia famiglia ho visto che era partita da un borgo non lontano da Chernobyl, che è in Ucraina ma quasi ai confini con la Bielorussia. Il villaggio di mio nonno è proprio nell’area più contaminata dal disastro nucleare del 1986…».
Cos’è rimasto, in lei, della cultura dei nonni ebrei?
«È un po’ lontana da me. Un po’ estranea. L’ha riscoperta mio figlio Dylan. Ha amici di scuola che tutti i weekend, al sabato, vanno alla scuola ebraica. Ci va anche lui. E un giorno ci ha detto “papà, mamma, quando accendono le candele sento qualcosa…”. Ha celebrato, ai 13 anni, anche il bar Mitzvah. Io no, non ho la stessa religiosità. Mia madre è protestante…».
Suo padre?
«Papà sta diventando più religioso adesso. Ha riscoperto la sua fede di origine soprattutto dopo l’incidente con l’elicottero. Non si ruppe neppure un osso, quella volta. Aver visto morire in quella tragedia persone molto più giovani di lui gli ha dato da pensare: “Perché io vecchio sono ancora vivo e questi ragazzi sono morti?” Ed è andato a rileggersi l’Antico Testamento…».
A quanti libri è arrivato, finora, suo padre?
«Dieci. Ne ha scritti già dieci».
Sua madre?
«Uno. Magnifico».
E lei?
«Niente» (in italiano, ridendo).
Eppure ne avrebbe, di cose da raccontare…
(Ride).
Nella riscoperta delle origini è riuscito a capire un po’ di più suo nonno? Pare fosse un uomo duro. Violento. Spesso ubriaco…
«Faceva una vita durissima. Aveva un cavallo e un carro e girava raccogliendo nella spazzatura quello che poteva recuperare e rivendere».
Lo straccivendolo…
«Aveva sette figli da mantenere, sei femmine e un maschio, mio padre. Era una vita molto difficile. Non aveva tempo da dedicare a loro. Papà dice che soffrì molto di tutto questo. Gli sarebbe piaciuto avere una parola di conforto, una pacca sulle spalle…».
Invece ricevette soltanto un gelato in regalo un giorno della recita a scuola. L’unico momento di dolcezza…
«Vedo che è ben informato sulla storia dei Douglas…».
Ho leggiucchiato qua e là…
«È vero, fu l’unico momento che mio padre ricordi di dolcezza del nonno. Lei adesso mi chiederà del rapporto con mio padre…».
Obbligatorio.
«È una storia diversa. Mio padre era assente perché lavorava troppo. Era la generazione prima della tv. Gli attori facevano cinque o sei film all’anno. Troppi. Per di più i miei divorziarono quando ero piccolo e io venni portato a vivere dall’altra parte dell’America, sulla costa orientale. Andavo a fargli visita e lui si sentiva in colpa perché lavorava… Praticamente lui ha rallentato solo dopo l’incidente in elicottero, ventitré anni fa… Non era facile…».
Si è scritto molto di questo vostro rapporto difficile…
«Senta, se lei mi chiede qual è l’uomo che ammiro di più al mondo io le rispondo: mio padre».
Quand’è che avete fatto pace? Quando lei vinse l’Oscar per aver prodotto Qualcuno volò sul nido del cuculo?
«Non c’era mai stata guerra. Mai. Solo assenza. Certo, quell’Oscar mi permise di uscire dall’ombra di mio padre, questo sì».
In un’intervista di qualche anno fa lei disse di sentirsi ormai «più un produttore che un attore» è ancora così?
«Credo ci sia un equivoco».
Vuol dire che le mettono in bocca frasi che lei non ha detto?
«Questo senz’altro. Ma lì volevo dire un’altra cosa, probabilmente. E cioè che dopo il successo di Qualcuno volò sul nido del cuculo mi domandavano: ma perché vuoi fare ancora l’attore? Perché non ti dedichi solo alla produzione? Tanto più che il passaggio da attore di televisione, dopo aver fatto 104 puntate de Le strade di San Francisco…».
Viste tutte.
«Davvero?» (Ride).
Giuro. Il massimo del relax: polizieschi puliti senza sbudellamenti…
«Dicevo che passare dalla tv al cinema pareva complicato se non impossibile. Le uniche persone che conoscevo che ce l’avevano fatta erano Clint Eastwood e Steve McQueen. Era molto più semplice, per me, fare il produttore che l’attore. Anche in Sindrome cinese decisi di tenere per me solo una piccola parte…».
E una dozzina di giorni dopo l’uscita arrivò l’incidente alla centrale di Three Mile Island…
«Non ci aiutò affatto, quell’incidente. Il bombardamento di notizie sui giornali e in televisione fu così massiccio che la gente pensava di “avere già visto” il film».
Legge sempre, tutti i giorni, come ai tempi di Wall Street, le pagine finanziarie?
«Certo. Mi piace leggere il giornale. Perdo tantissimo tempo a leggere i giornali. Soprattutto sport e finanza».
Quelli di gossip?
«Ogni tanto… Anche se mi secca che sappiano che ci do un’occhiata». (Ride).
La cosa più stupida che ha letto su di lei qual è stata?
«Ci dovrei pensare… Sono state talmente tante…».
Ho letto che una sua fan la fermò per dirle che adorava i peli delle sue ascelle.
«Cosa cosa?».
Così: andava pazza per i peli delle sue ascelle.
«Questa non me la ricordo. L’avrei raccontata io?».
Così pare…
«È divertente. Non me la ricordo, ma è divertente».
Anche lei ci mette del suo… Come quando va a cacciarsi nei guai per amore della battuta spiritosa…
«È vero. A volte dici una cosa ironicamente e quando la rileggi assume tutto un altro senso…».
Quella sul cancro alla gola per colpa del sesso orale! Come le venne in mente?
«Be’, sì, quella volta stavo cercando di fare un annuncio pubblico sul male che mi aveva colpito. È diventato un’altra cosa».
E la notizia dei 300 milioni che dovrebbe pagare dopo il divorzio a Catherine Zeta-Jones?
«Una sciocchezza. Quale divorzio? Non solo trecento milioni sono una montagna di soldi ma io e Catherine non abbiamo affatto intenzione di divorziare. Non ne abbiamo mai parlato, non siamo mai andati dagli avvocati, non abbiamo fatto carte… Niente di niente».
Non è vero che vi siete separati?
«Abbiamo solo deciso per qualche tempo di non vivere più insieme. Cosa vuol dire? Che è finita? Spero proprio di no… La mia speranza è che non sia affatto così. Anzi, stiamo cercando di essere dei bravi italiani…».
Nel senso che provate a mettere la famiglia davanti al resto?
(Ride).
Insomma, ci sono due Michael Douglas: uno è lei e un altro quello raccontato dai giornali di gossip…
«Mi pare proprio di sì. Mi sorprendo continuamente a leggere certe cose».
Il ricovero per disintossicarsi dall’alcolismo, per esempio, c’è stato o no?
«Sì. Quello c’è stato. Dopo Basic Instinct. Era un periodo molto difficile, per me. Molto. Avevo perso quello che per me era una specie di vice-papà… Bill Darrid, il secondo marito di mia madre. Stavo male. Una rivista inglese scrisse che ero stato ricoverato per disintossicarmi dal sesso. E venticinque anni dopo sono ancora qui a spiegare che era tutto inventato».
L’altra faccia della celebrità, forse?
«Può darsi. Però…».
Lei raccontò di essere stato riconosciuto perfino da una vecchia che faceva tappeti in un paese della Turchia interna dove non avevano neanche la televisione…
«Una volta, su un’isola delle Seichelles, fuori dal mondo, dove non c’era neanche una locanda per dormire, ricordo uno che mi fissò e disse: “Michael Douglas”».
È un peso, la celebrità?
«Ma no, dai… È una benedizione. C’è una certa mancanza di privacy, è vero, ma non ho proprio pazienza per quegli attori che si lagnano continuamente della celebrità… Facciamo gli attori! Ammetto però che avere a che fare con i paparazzi è quasi peggio che avere a che fare con i servizi segreti della National security agency. È diventato tutto difficile. Ogni persona che hai intorno ha un telefonino con la videocamera…».
Prossimi film?
«Intanto occupiamoci di quelli appena fatti. Oltre a Dietro i candelabri c’è Last Vegas con Morgan Freeman, Kevin Kline e Robert De Niro. Poi And So It Goes con Diane Keaton e il thriller The Reach, che arriveranno sugli schermi nel 2014…».
Ne ha fatti un sacco, negli ultimi mesi.
«Sì, è stato un po’ inusuale, per me. Sa com’è, dopo il cancro…».
L’ha fatto per sentirsi vivo?
«Esattamente. Sono uscito così felice da quell’esperienza… Così sollevato…».
Cos’ha in agenda?
«Devo venire a Roma. Perché mio figlio è un fanatico della storia romana. Legge tutto di Roma, degli antichi romani, degli imperatori…».
Parliamo di Dylan, il tredicenne?
«Certo. Il più grande, Cameron, purtroppo, oggi non può fare niente».
È ancora in prigione per droga?
«Sì».
Per quanto tempo, ancora?
«Spero un po’ meno del previsto».
Quando vi vedete?
«Devo aspettare ancora quattordici mesi per vederlo. Dico: quattordici mesi».
Un’eternità…
«Sono queste le regole del nostro sistema penitenziario».
Ha ricucito, con lui?
«Non c’era niente da ricucire. I nostri rapporti sono sempre stati buoni. Ecco cosa faremo, al più presto: prima andremo a Roma e poi andremo a fare visita a lui. Mi manca. Molto».
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