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 2013  novembre 15 Venerdì calendario

PER LE LEGGI GIUSTIFICANO I CRIMINI DELL’ECONOMIA

Il presocratico Talete, quello del teorema sulle rette paralelle e dell’acqua come principio di tutte le cose, fu il primo speculatore. Forte delle sue conoscenze meteorologiche, previde che la stagione avrebbe portato una favolosa raccolta di olive e prese in affitto tutti i frantoi di Mileto e Chio, per poi riaffittarli e guadagnarci. Futures ante litteram. «È facile per un filosofo diventare ricco se lo desidera» lasciò scritto, «ma non è questo lo scopo della filosofia». A leggere I crimini dell’economia di Vincenzo Ruggiero (Feltrinelli, pp. 248, euro 20) si scopre invece che la «scienza triste» si è prestata, spesso e volentieri, non tanto ad arricchire i suoi protagonisti, ma a fornire alibi teorici allo sfruttamento dei ricchi sui poveri. Oltre che macchiarsi di una lunga serie di altre nefandezze intellettuali, che vanno dalla giustificazione della schiavitù («strumenti animati» Aristotele dixit) allo smercio di titoli tossici. L’autore di questo libro denso, documentatissimo e complesso, insegna Sociologia alla Middlesex University di Londra e ha risposto a qualche nostra domanda.
Lei scrive che quella economica non è una storia nobile. Gli economisti, dopo la crisi, hanno già una cattiva reputazione. Perché infierire con una lettura criminologica?
«Perché gli economisti, tra i quali alcuni premi Nobel come Gary Becker e George Stigler, oltre a esaminare il carcere, l’alcolismo e persino l’amore coniugale da un punto di vista economico, hanno spesso visitato il campo della criminalità. Mi è sembrato gentile ricambiare la visita. Come loro attribuiscono a chi commette reati una logica razionale, ispirata dal calcolo dei costi e dei benefici, così io attribuisco agli economisti l’intenzione di giustificare con le loro teorie la produzione di malessere individuale e danno sociale».
Dalle sue pagine si scopre che il pensiero economico ha spesso giustificato la diseguaglianza, mai forte come oggi. Perché?
«Da Tommaso Moro in poi, si è detto che i privilegiati hanno sempre cercato ogni artificio per giustificare i propri privilegi. L’economia cerca spesso di spiegare perché la maggioranza delle persone è povera e una stretta minoranza ricca. Gli economisti più irriducibili, come Hayek e Friedman, cercano di spiegare anche perché è bene che sia e rimanga così».
Alfred Marshall diceva che «ogni agente della produzione viene applicato al processo produttivo fintanto che genera profitti». Ma delocalizzando e sostituendo gli uomini con le macchine non si rischia che il valore del lavoro sprofondi ulteriormente?
«Nelle teorie di Marshall leggo non solo un incoraggiamento agli imprenditori a esportare la produzione laddove la manodopera costa meno, ma anche una giustificazione della schiavitù. L’autore sostiene che il salario deve corrispondere alla somma che l’ultimo lavoratore disponibile sul mercato è disposto ad accettare. I migranti senza permesso e uomini e donne soggetti a tratta sono lavoratori ideali in questo senso. Ecco perché i trafficanti di esseri umani hanno un ruolo economicamente importante da ricoprire».
Di recente Robert Reich ha ricordato che il 70 per cento dell’economia dipende dai consumi della classe media. Che è sempre più povera. Quando è iniziato l’impoverimento e cosa si può fare per fermarlo?
«L’impoverimento è cominciato non quando si è conclusa la lotta tra le classi, ma quando una sola classe – quella dei datori di lavoro – ha cominciato a combatterla. Non si è trattato solo di passare dalla manifattura alla finanza. Secondo la logica economica che io critico, comunque, l’impoverimento e la crescente disuguaglianza sono salutari, sono opzioni che abituano gli individui a "scegliere" quale posizione intendono occupare nella società . Inoltre, l’impoverimento stimola a imitare i ricchi, il che costituisce un beneficio per l’economia nel suo complesso, anche se imitare i ricchi vuol dire spesso emulare le pratiche illecite che li hanno resi tali. Infine, come diceva Tommaso d’Aquino, se non ci fossero i ricchi, chi potrebbe permettersi di fare l’elemosina?».
Un capitolo è intitolato Socialismo finanziario e allude al keynesismo alla rovescia che ha salvato le banche coi soldi dei contribuenti. Come si può sostenere, senza arrossire, questo paradosso da parte di gente che si è sempre detta a favore di uno Stato minimo?
«È un punto chiave del mio libro. Nella storia del pensiero economico nessuna teoria, in realtà , richiede la scomparsa dello Stato. Da sempre gli imprenditori vogliono che lo Stato scompaia per gli altri e sia ben presente per loro. La libertà di mercato, in quanto principio, è violata soprattutto da coloro che la predicano, e molti imprenditori senza sostegno statale sarebbero costretti al fallimento. Peraltro vi è un paradosso anche nelle formulazioni di Keynes, il quale tra le righe sostiene che i soldi dello Stato vanno consegnati a chi è abituato a spenderli; inutile darli ai poveri, che prudentemente sono portati a metterli da parte».
A proposito di neoliberismo, qual è lo stato di salute di questa ideologia nel sesto anno di una crisi che invece sembrava aver resuscitato Marx?
«L’ideologia neoliberista sta dimostrando un carattere omeopatico: si cura uno stato virale inoculando dosi crescenti di virus».
Secondo i neoliberisti, tra l’altro, 2-3 punti di crescita sono necessari sempre. è d’accordo?
«Come è possibile pensare a una crescita infinita in un Pianeta che ha dimensioni e risorse finite? I danni ambientali sembrano ormai irreversibili, purtroppo. Dire che lo scopo dell’attività umana è quello di accumulare sempre più profitti è come dire che mangiamo per diventare sempre più grassi».
Nelle conclusioni accenna molto brevemente al movimento della decrescita, caro a Serge Latouche. È un’opzione economicamente praticabile?
«Il mio modo di interpretare l’idea di decrescita consiste nell’individuare e denunciare i danni prodotti dalle teorie economiche e dall’economia in quanto attività umana così come siamo abituati a osservarla nella pratica».
Quale futuro possiamo aspettarci se, com’è successo negli ultimi trent’anni, l’1 per cento più ricco della popolazione triplica la propria ricchezza mentre il restante 99 resta fermo o perde terreno?
«Senza una svolta radicale nel pensiero economico, temo che l’1 per cento si abituerà a ritenere la propria posizione come meritata o come risultato della volontà divina. Mentre il 99 potrebbe assuefarsi all’esclusione, a ridurre le aspettative al minimo, alla vita nuda. Anche chi ha poco da guadagnare dalla crescita potrebbe convincersi che quanto ne ricava sia meglio di niente. La polarizzazione eccessiva della ricchezza, d’altro canto, può anche portare a situazioni sociali via via ingovernabili, a conflitti di cui non possiamo ancora immaginare le dimensioni».
(D’altronde la teoria classica ci ha insegnato che il lavoro possiede due valori: uno naturale e uno di mercato. Il primo è il prezzo pagato dai lavoratori per sopravvivere e riprodursi. Il secondo corrisponde al salario. Se quest’ultimo diventa inferiore al primo, come succede sempre più spesso, si mette malissimo. «Solo dopo che le privazioni li avranno resi meno numerosi» osservava imperturbabile David Ricardo, «o quando la domanda di lavoratori torna a crescere, il loro prezzo di mercato si riavvicina a quello naturale e i lavoratori avranno accesso al benessere moderato che un salario può garantire». Per ridurre la disoccupazione, la morte dei disoccupati è oggettivamente un rimedio efficace. Ma auspicabile? L’economista non batte ciglio).