Lirio Abbate, l’Espresso 15/11/2013, 15 novembre 2013
CHE BELLA VITA DA LATITANTE
I potenti della ’ndrangheta vivono nel lusso. Spesso protetti da politici. Così non è per i narcos della coca: braccati, devono fuggire. In città lontane. Per gestire ancora i traffici illeciti. Ecco le loro storie Di giovanni tizia –
Cercano rifugio nei paesi caldi. O nelle fredde cittadine del Nord Europa. Fuggono per continuare a gestire imperi economici. Oppure per crearne di nuovi. Nell’ultimo anno decine di boss sono stati catturati all’estero. Ville in Colombia, Sudafrica, Venezuaela, resort a Santo Domingo, appartamenti di lusso in Olanda e Spagna. I bunker insomma hanno perso di fascino agli occhi dei capi mafia, che prima spendevano un sacco di quattrini per dotare la villa di una tana sotterranea sicura. Ma tra i boss e i faccendieri che lasciano l’Italia per rifugiarsi all’estero ci sono differenze. Non tutti possono permettersi una latitanza dorata: lusso, relazioni con il potere politico e finanziario, invisibilità assoluta. Il privilegio spetta a pochi eletti, come "zio Aldo" Miccichè. Per gli altri, narcos e killer del calibro di Francesco Nirta, c’è da sporcarsi le mani, anche da latitanti in terra straniera.
Ora che Aldo il faccendiere è tornato in Italia, estradato gli ultimi giorni di settembre dal tribunale venezuelano, i pm di Reggio Calabria cercheranno di svelare alcuni misteri di cui è stato attore e protagonista. È un uomo libero Aldo, ha solo l’obbligo di firma e di dimora. Il carcere non fa per lui, abile nello schivarlo.
Miccichè è cittadino venezuelano dal 2004. Nell’ordine di estradizione, secondo il giudice, il cambio di cittadinanza è servito per evitare la legge antimafia italiana. L’ha vissuta con eleganza la sua seconda vita lontano dai palazzi del potere italiano. Nel lusso, frequentando i salotti buoni della capitale Caracas e i comitati d’affari che raggruppano imprese, rappresentanti delle comunità italiane ed esponenti della politica romana in visita nel centro della rivoluzione Bolivariana. Aldo, democristiano doc, è cresciuto con la casacca scudocrociata a Reggio Calabria, tanto da diventare segretario provinciale e poi consigliere provinciale a Roma. Sembra un distinto signore di 50 anni quando gli stringono le manette ai polsi per la prima volta. Era il 1990. Accusato dei fallimenti relativi alla gestione di alcuni servizi logistici di Roma Termini. Ma quando arrivò la sentenza definitiva lui era già lontano dal Paese. Si era lasciato così alle spalle anni di impegno politico e giornalistico: era stato a capo dell’agenzia Montecitorio, collaboratore di diverse testate oltre che editore esperto in finanziamenti pubblici. Sparì dalla circolazione dopo l’uscita dell’ultimo numero di "Italia Sera". Un quotidiano serale pensato per gli italiani all’estero. Guardava già oltre confine il faccendiere calabrese. Un’esperienza editoriale avviata con finanziamenti dello Ior e della Sbs, ai tempi uno dei maggiori istituti di credito svizzeri. Il giornale chiuderà i battenti in un mese lasciando un buco stellare di oltre un miliardo di lire nelle due banche. E in quel periodo che medita la fuga. Alle spalle ha diversi fallimenti. E uno dei misteri ancora irrisolti sono i nomi dei complici che gli hanno permesso di ottenere altri finanziamenti nonostante le precedenti esperienze imprenditoriali andate a picco. Che potesse contare su potenti amicizie è per gli investigatori un dato certo. "Zio Aldo" è tra i primi ricercati, insieme a Roberto Vito Palazzolo di Cosa Nostra, a lanciare la moda della latitanza dorata. Tra palme, country club e mare cristallino. Business e relazioni come pane quotidiano. Senza l’affanno di chi si sente braccato.
Il fiato sul collo lo sentiva invece Francesco Nirta nel suo periodo di latitanza trascorso tra Germania e Olanda. Giorni, mesi, anni, segnati dalla paura, dall’angoscia. Dal timore che qualcuno lo tradisse. Con un ergastolo sulle spalle, i morti sulla coscienza e tonnellate di coca da smistare dai porti dell’Olanda verso le piazze del nord Italia, la sua vita da latitante è stata più dura rispetto a quella dei colletti bianchi che scappano dalla legge. Il quarantenne Francesco Nirta è tra i personaggi centrali della faida di San Luca, il conflitto fratricida finito sulle pagine di tutto il mondo dopo la strage di Ferragosto nel 2007: un agguato in cui vennero uccisi sei uomini della ’ndrina Pelle-Vottari con una raffica di proiettili che interruppe per sempre la quiete della città di Duisburg. La capitale tedesca dell’industria del ferro e dell’acciaio. Diventata negli ultimi vent’anni la succursale della ’ndrangheta imprenditrice.
La fuga del boss si è conclusa in un quartiere residenziale di Nieuwegwin, paesone olandese del distretto di Utrecht. Catturato dopo un lungo lavoro di intelligence della Squadra Mobile di Reggio Calabria e dei poliziotti del Servizio centrale operativo che hanno coordinato le operazioni dei colleghi olandesi. Per prendere i narcos come Nirta non bastano le intercettazioni. Ci vogliono anche i metodi tradizionali, il classico pedinamento e lo sfiancante appostamento. Il blitz, le manette, poi la perquisizione e il ritrovamento di 40 chili di coca purissima e di 20 mila euro in contanti.
Non era solo, Nirta. Insieme a lui, riuniti in un summit d’affari, sono stati arrestati tre complici stranieri - uomini di primo piano del narcotraffico mondiale - e un compaesano. L’Olanda non è un territorio scelto a caso dalla mafia calabrese. Qui c’è il porto di Rotterdam. Da qui passano le nuove rotte della coca. E in questi centri abitati, con le case basse circondate da distese verdi e da chilometri di piste ciclabili, è facile scomparire. «La rete di insospettabili, fatta anche da olandesi e tedeschi, li protegge», spiega a "l’Espresso" Andrea Grassi dirigente dello Sco della polizia di Stato (vedi box in basso).
Così i distretti di Amsterdam e Utrecht sono diventati mete fisse dei latitanti di San Luca. «Luoghi che non sono scelti solo sulla base della sicurezza ma anche in base alla logistica degli affari», continua Grassi. Una notevole differenza rispetto ai covi dell’Aspromonte in cui erano costretti a nascondersi i loro nonni e i loro padri. Le nuove frontiere del business hanno cambiato anche il modo di trascorrere la latitanza. Eppure per i soldati della ’ndrangheta la fuga non è mai una villeggiatura. Lo è per i vertici della cosca e i faccendieri al servizio dell’organizzazione.
Francesco Nirta è stato condannato all’ergastolo per un omicidio commesso nel feudo calabrese della ’ndrina. Secondo i giudici c’è la sua firma sulla prima risposta di fuoco all’agguato in cui rimasero feriti lui, il fratello e un bambino. E portò all’uccisione della cognata Maria Strangio. Nella cronaca giudiziaria è ricordata come la strage di Natale 2006. Il punto di non ritorno che diede nuovo impulso alla faida tra le due famiglie. Un odio ancestrale, che sfociò in un primo confronto armato nel 1991. Quella volta il casus belli fu un banale scherzo di carnevale. Delle uova lanciate addosso ai giovani della cosca rivale. Da quel giorno i paesi attorno a San Luca furono teatro di una guerra sanguinosa. Il conflitto agitò i grandi capi. Volevano che si raggiungesse un accordo. Basta sangue. Gli affari erano in pericolo. La stessa cosa avvenne nel secondo tempo della faida. Dopo la strage di Natale e dopo Duisburg, i padrini del gotha ’ndranghetista cercarono una via d’uscita. Si trovò l’accordo. E pace fu. Non caddero invano le parole del parroco di San Luca pronunciate davanti ai familiari e ai giornalisti: «Pace e perdono». Chissà quante volte durante la sua latitanza Francesco Nirta ha ripensato a quelle parole. A quei morti. Questioni di sangue e onore. Valori e credenze che invece non hanno trovato spazio nella villeggiatura ventennale, e dorata, del faccendiere Miccichè.