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 2013  novembre 09 Sabato calendario

LA SCALATA AL SUCCESSO


[Giuseppe Rossi]

L’ edificio, in pieno centro storico di Firenze, si staglia di frontre a Palazzo Strozzi, gioiello architettonico rinascimentale e sede di mostre d’arte per spiriti nobili. Maestoso e magnetico come tutti quelli del suo rango, e incastonato tra le vetrine dei negozi di lusso. Sul portone, custodi in alta uniforme.
All’interno, marmi, stucchi, arazzi. Qui vive (in affitto) Giuseppe Rossi, 26 anni, abruzzese nato nel New Jersey, ex bambino prodigio del nostro calcio, due volte risorto dalle ceneri del suo ginocchio destro, oggi attaccante della Fiorentina e capocannoniere del campionato. E qui, in questo tempio dell’eleganza, della classe e del rigore formale, insieme a due amici americani, uno dei quali in bermuda e classico cappellino da baseball, Pepito si muove in jeans e maglietta: privilegi da personaggio negati ai comuni mortali? Piuttosto, in ossequio al motto secondo cui l’abito non fa il monaco, un trascurabile dettaglio nel suo modo di comportarsi, tanto misurato da renderlo quasi invisibile. Dunque, perfettamente intonato al luogo nel quale si trova.
Piccolino, capelli ordinati, zero orecchini e tatuaggi («Nemmeno se vinco lo scudetto ne faccio uno»): fedele al nome e cognome che porta, Giuseppe Rossi passerebbe in effetti inosservato, se non avesse un notevole talento nei piedi.
Il suo allenatore Montella ha detto che lei e Balotelli sareste la coppia perfetta. Cos’è, il diavolo e l’acquasanta?
«Neanche io sono un santo. Se sono le 3 di notte mi capita di passare col rosso, ogni tanto tiro una parolaccia, o un calcetto da dietro all’avversario...».
Avessi detto. Con Mario è in buoni rapporti?
«Certo. In Nazionale viene a chiedermi la musica, ridiamo per come si esprime in inglese. Le sue battutine mi stanno benissimo, ho tanti amici americani che si comportano come fa lui».
È il punto più alto della sua carriera?
«No. È un momento felice, la squadra va bene e io, dopo due anni di inattività, cresco partita dopo partita. Ma il periodo migliore l’ho vissuto tra il 2010 e l’estate del 2011, nella stagione precedente al secondo infortunio, quello della rottura del crociato: segnai 35 gol col Villarreal, diventando il miglior marcatore nella storia del club e portandolo in Champions, società importanti si interessarono a me».
A proposito: a Firenze lo sanno, che lei è milanista?
(sorride) «Ho smesso da tanto tempo».
Questa è la piazza migliore per ricominciare?
«È il posto perfetto. Alla Fiorentina l’idea di calcio è uguale a quella cui ero abituato in Spagna: possesso palla, gioco corto, scambi veloci per arrivare in porta».
Montella non le ha mai chiesto: Giuseppe, conosci qualcuno al Barcellona per raccomandarmi?
(ride) «No, non abbiamo mai parlato di questo. Certo è un tecnico in linea col calcio che fa il Barcellona: moderno e vincente».
Quando un atleta riemerge da un infortunio lungo e grave come il suo, spesso dice che proprio quell’incidente lo ha maturato come persona. Per lei è stato lo stesso, oppure, senza quell’interruzione forzata, oggi la sua crescita umana e tecnica sarebbe compiuta?
«A me non piace ragionare coi “se”. Durante la rieducazione non mi sono mai detto: se non mi fossi fatto male... se non avessi perso 2 anni... Sarebbe stato un piangermi addosso che mi avrebbe solo fatto male. Invece, mi sono circondato di persone che mi hanno aiutato ad avere pensieri positivi».
Quali?
«La certezza che avrei recuperato l’integrità e la stabilità del ginocchio. Ogni giorno di terapia mi ponevo un obiettivo e ogni giorno lavorativo per ottenerlo».
Si è mai svegliato una mattina con addosso la paura di non farcela?
«Mai, se no non mi sarei sottoposto al massacro che è una rieducazione al ginocchio. Avevo fiducia in chi mi aveva operato e nel fisioterapista che avevo a New Yor, Luke Bongiorno. Siamo diventati amici, ci siamo raccontati tutto di noi, ogni tanto viene a trovarmi a Firenze».
Il momento in cui ha capito di essere davvero guarito?
«Questa estate, in un’amichevole contro l’Apoel Limassol. Ero già rientrato a Pescara, a fine campionato scorso, ma è stato solo a luglio, contro i ciprioti, che ho capito di essermi lasciato tutto alle spalle. Mi entra uno da dietro: un intervento brutto, violento, che mi solleva da terra. Intorno a me, in campo e sugli spalti, cala il gelo. Mi tocco il ginocchio, piego la gamba: passato l’effetto del colpo, nessun dolore. Lì ho capito che era fatta...
Perché la Fiorentina potrebbe arrivare in Champions?
«Perché società, allenatore e giocatori hanno la stessa mentalità. La stessa convinzione nel raggiungere l’obiettivo fissato».
Un motivo invece per cui potrebbe non arrivarci?
«Se pensassi che potremmo non piazzarci in uno dei primi 3 posti del campionato, dimostrerei scarsa fiducia in me stesso e nei miei compagni. Al contrario, io sono sicuro che ogni domenica possiamo uscire coi 3 punti dal campo, contro qualsiasi avversario»,
Ma quello che fate in campo è sufficiente a ottenere il risultato? In altre parole: non ha mai la sensazione che, per farcela, in Italia conti anche il peso politico del club?
«Mi rifiuto di pensare a queste cose. Credo che se ti alleni bene e giochi meglio degli altri, vinci per forza».
È un fatto però che lo scorso anno ci sono state grandi polemiche proprio a Firenze per la qualificazione in Champions ottenuta dal Milan ai vostri danni all’ultima giornata di campionato, grazie anche a un rigore dubbio concesso ai rossoneri a Siena.
«Guardi, l’anno scorso ho mandato un tweet per sottolineare come il Milan era stato capace di ribaltare il risultato contro il Catania (a San Siro era finita 4-2, con i siciliani 2 volte in vantaggio; ndr) ed è venuto fuori un pieno. Perciò non dico più nulla. Il problema è che in Italia si parla troppo di arbitri. Troppe trasmissioni televisive, troppa gente che dice la sua senza sapere. Che differenza con la Spagna!».
Lei ha passato i primi 12 anni della sua vita negli Stati Uniti; poi 2 anni e mezzo in Inghilterra, al Manchester United, quasi 6 in Spagna e 6, tra Parma e Firenze, in Italia. Partiamo dalla fine: questo Paese l’ha ritrovato così come se lo immaginava?
«Sono tornato da poco, mi divido tra casa e campo. È presto per dare giudizi».
Ma legge i giornali, si sarà fatto un’idea della situazione...
(diventa prudente) «Le pagine di politica non le guardo. Non mi interessano».
Non vota?
«No».
Sa almeno che il sindaco di questa città, Matteo Renzi, è il favorito per diventare segretario del Pd?
«Ho visto Renzi una volta, ma non seguo la politica».
Capito. Cosa c’è di americano, in lei?
«Quasi tutto. Mia madre e mia sorella vivono ancora a Clifton, nel New Jersey. Lì ci passo le vacanze, il Natale. Mi piace molto stare in casa, sdraiato sul divano a guardare la Nfl. Gli americani escono poco: il loro mondo è la casa».
Cosa le manca di più?
«I pranzi e le cene di famiglia. Quelli in cui ci riunivamo coi parenti, una volta da noi, un’altra da mio zio, 14, 15 persone. Si mangiava e si giocava a carte».
Hamburger o pizza?
«Sul cibo sono un vero italiano: pizza tutta la vita».
Giacca e cravatta o bermuda e canotta?
«Bermuda e canotta».
Red Hot Chili Peppers o Liga?
«Nessuno dei due. A me piace l’hip hop. Americano, ovviamente».
E della Spagna, le manca qualcosa?
«Mi sono divertito tanto. La gente è allegra ma non invadente: nessuno ti strattona per una foto. Come a Firenze».
Cosa ha visto della città?
«Il David e Piazza Michelangelo. Tappe fisse quando ho qualche ospite».
Dove vivrà a carriera finita?
«Credo che tornerò in New Jersey».
Dopo ogni gol si rivolge al cielo per dedicare la rete a suo padre Fernando, morto di tumore 3 anni fa, e mormora qualche parola. Vuol dire quali?
«Niente di speciale. Soltanto: “Grazie, papa. Ti voglio bene”».