Gianni Poglio, Panorama 14/11/2013, 14 novembre 2013
INTERVISTA A CLAUDIO BAGLIONI
Per gli amici sono un TomTom vivente, quello a cui si telefona a qualsiasi ora per una dritta sul tragitto più breve o la strada meno trafficata. Chi mi conosce bene sa che distanze e percorsi non hanno più segreti per me. Ho battuto l’Italia a palmo a palmo, trasformando qualunque spazio in un palcoscenico: balconi, autobus, stazioni della metropolitana, camion, piazze, marciapiedi, teatri lirici, stadi e palasport. Una vita nomade, ma meravigliosa» dice Claudio Baglioni.
Una vita in tour...
Gran bella parola. Nella mia testa evoca l’immagine di uno sconfinato parco divertimenti e tanti amici con cui giocare senza annoiarsi mai.
Le nuove date dei suoi concerti arrivano esattamente dopo 50 anni di palco. Che cosa ricorda della prima volta?
Il luogo, piazza San Felice da Cantalice a Centocelle, a Roma, e il brano, Ogni volta di Paul Anka. Mi ero iscritto a un concorso canoro per emulare due amichetti di condominio. I miei non sapevano come gestire la cosa perché non avevano alcuna inclinazione musicale. Ho passato tre giorni a fare prove davanti allo specchio di mia madre. Il colpo di scena era un movimento a scatto della gamba. In famiglia eravamo convinti che Anka si chiamasse così per il suo modo di ancheggiare. Ovviamente non era vero.
Les Images è invece il nome della sua prima band.
Era un complessino beat amatoriale. Negli anni Sessanta, in ogni condominio di periferia c’era un gruppo beat. Il nostro aveva una formazione singolare: suonavamo tutti la chitarra. Sapevamo bene che chitarristi e batteristi erano i più gettonati fra le ragazze. Diciamolo pure: non eravamo spinti dal sacro fuoco dell’arte. Una volta ci affacciammo dal balcone di casa mia a Centocelle e suonammo tutti e sette la chitarra. Volevamo fermare il mondo con quell’esibizione, ma in realtà non fermammo proprio nessuno. Alcuni del gruppo si erano addirittura lisciati i capelli sull’asse con il ferro da stiro per apparire più affascinanti. Ma non servì a nulla. Sette o otto anni fa sono tornato su quel balcone per uno show improvvisato, un tuffo nella memoria. Quando si sono spalancate le finestre e sotto c’era una folla, ho avuto la percezione reale di quanto fosse cambiato tutto. Ripercorrere le strade che hanno segnato la vita ha un sapore agrodolce, è un viaggio nel participio passato, in quello che è stato e non tornerà più.
La sua è una storia di canzoni d’amore, di buoni sentimenti e testi popolari. Tutto questo, negli anni successivi al 1968, veniva bollato come qualunquista e reazionario. Se l’è mai vista brutta?
Un po’ di ostracismo c’è stato. A quei tempi era un handicap non ragionare per estremi. Non sono mai stato uno che cercava lo scontro con la polizia, anche perché mio padre era un carabiniere e io in ogni divisa vedevo qualcosa di familiare. Avere posizioni moderate e non omologate mi portava a fare il mediatore nelle assemblee studentesche o durante le occupazioni e gli scioperi. Risultato: mi odiavano praticamente tutti. Un giorno venni assalito due volte nel giro di pochi minuti. Prima mi bloccarono i maoisti, poi i missini. Spintoni, minacce e altre galanterie. Come artista, ho subito volantinaggi: «Stasera ti daremo un centinaio di legnate, veniamo a riprenderci la musica che è nostra». Ecco, il tenore dei messaggi era questo.
Prima del successo di «Questo piccolo grande amore» nel 1972, c’è una parentesi polacca fatta di concerti tutto esaurito e ragazze in delirio davanti ai camerini.
In Italia ero un perfetto sconosciuto, in Polonia e Cecoslovacchia un idolo delle folle con le groupie al seguito. Fu un trionfo inaspettato e un’esperienza surreale al tempo stesso. Ogni pomeriggio, durante le prove nei teatri, c’erano cinque funzionari di partito con tanto di impermeabile seduti in platea. Dovevano valutare se i testi delle mie canzoni avevano contenuti ostili alla rivoluzione. Capirai... Sembrava la scena di un film sulla guerra fredda. A Varsavia ho anche rimediato una figuraccia epocale. Salgo sul palco senza guardare attentamente il pubblico. Dopo un paio di brani, dico: «Questa canzone è dedicata alle bellissime ragazze polacche». Nessuna reazione. Penso a un problema di pronuncia e ripeto la ruffianata due o tre volte. Niente. A un certo punto qualcuno mi fa cenno di piantarla e, finalmente, intuisco il senso di quel silenzio: in sala c’erano solo i soldati di una guarnigione che erano stati invitati allo show.
A metà anni Settanta, in piena Baglioni-mania, lei e Francesco De Gregori vi date appuntamento in piazza del Pantheon, a Roma, per uno show improvvisato. Un flop, corretto?
Sì. Eravamo convinti di fermare il mondo in quanto volti noti. E, invece, della nostra presenza non si accorse nessuno. Un gruppetto di turisti giapponesi lanciò 400 lire nella custodia della chitarra. Quella fu l’unica reazione. Ci eravamo fatti il film di essere sottratti all’abbraccio dei fan dalla polizia. Al contrario, la gente ci passava di fianco nella più completa indifferenza. Nemmeno uno che dicesse: ma io questi due credo di averli già visti...
Su quel che successe in piazza del Pantheon la sua versione e quella di De Gregori divergono.
Lui racconta che io ci sono rimasto malissimo perché ero quello più sensibile e romantico. Io invece sostengo che a rimanere sconvolto da quell’episodio fu lui perché da sempre molto più vanitoso di me.
Camion, autobus, balconi e concerti di strada: la sua carriera è costellata da esibizioni informali e a sorpresa. Perché?
Queste sfide, che mi sono sempre procurato da solo, sono salutari. Il senso è quello di ridimensionarsi, di tornare con i piedi per terra. In questo mestiere, quando si iniziano a benedire le folle, significa che nella testa si è rotto qualcosa. Ed è ora di intervenire.
Negli anni Ottanta gli stadi italiani si riempiono per i suoi show. Milioni di fan e una sfida impossibile: suonare tutti gli strumenti da solo.
Le folle del tour denominato Alé-oó furono impressionanti. Avevo le vertigini, a un certo punto fu come andare fuori strada. Quattro anni più tardi, nel 1986, feci una pazzia: suonare negli stadi da solo. Manovravo una serie di strumenti collegati come un’orchestra virtuale. Uno stress pazzesco: del concerto di San Siro con 100 mila persone ricordo solo l’inizio e la fine. Nulla di quel che è successo in mezzo. Ero in trance.
A turbare il periodo d’oro arriva nel 1988 la contestazione allo stadio di Torino durante lo show organizzato da Amnesty international...
Venti minuti di fischi e insulti. Venivano dalla fazione rock, molti erano fan di Bruce Springsteen. Il bello è che mi era stato chiesto di partecipare per spingere un po’ le vendite dei biglietti che non erano esaltanti. Accettai e finì così. Al momento reagii bene, però nei tre mesi successivi fu durissima. Ricordo che un giorno dissi tra me e me: oddio, è finita. Non era così.
Tutti gli artisti, anche i meno inclini alla trasgressione, descrivono i tour come un momento di sospensione della realtà, uno stacco totale dal mondo e dai suoi ritmi. Come si concilia questo con la vita familiare e quella di tutti i giorni?
Non si rientra mai subito nella realtà. Io non ho un approccio bohémien o spericolato, ma quando finisce un concerto è impossibile spegnersi. Se, come me, sei uno di quegli artisti che come unica droga si concedono l’adrenalina, non vai comunque a dormire prima delle 7 del mattino. Dopo uno show sei una bomba e, quando sei al massimo della luce, vorresti non spegnerti mai. In quei momenti sembra che il mondo sia un posto bellissimo dove stare. E così, quando rientri a casa, c’è inevitabilmente il rimbambimento, perché ti senti inutile come il soldato che torna dalla guerra e non ha più un mestiere, un’identità. Ecco, il problema è smettere.
Il titolo del suo ultimo album, «Con voi», ha il sapore di un tributo a cinquant’anni di storia condivisa. Con quelli che hanno lavorato con lei ma anche con i fan che hanno reso tutto questo possibile.
Quando si inizia a intravedere un’idea di finale, dell’ultima parte di una storia, si fanno un po’ di conti. La mia è una storia inesorabilmente intrecciata a quelle di migliaia di vite che sono transitate nell’orbita Baglioni. E non parlo solo dei miei collaboratori, ma anche di quelle persone che a 60 o 70 anni sono ancora lì a cantare e a saltare su una gradinata. Quando li osservo dal palco, divento tutto cuore.
Qual è il momento della sua vita «on the road» che non dimenticherà mai, il ricordo più intenso ed emozionante?
Le due ore successive al concerto all’Arsenale di Venezia nel 1982. Tornai in camerino dopo un trionfo e senza dire nulla al mio staff me ne andai da solo per le calli. Sempre a Venezia, nel 1969, ero stato escluso malamente da un concorso. Mi ero piazzato ultimo. Uscii dall’albergo a pezzi e iniziai a camminare distrutto sotto la pioggia. Pensai pure di buttarmi nei canali. Tredici anni dopo volevo godermi, da solo come allora, il dolce sapore della rivincita: è stato bellissimo.