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 2013  novembre 14 Giovedì calendario

LA GUERRA DEI POMODORI


C’è da fidarsi della frutta e della verdura italiane o dipende dalla zona di provenienza?
I prodotti agroalimentari italiani sono in genere sicuri, e ciò vale anche per quelli del Sud. «Lo dicono i dati» dice Rolando Manfredini, responsabile qualità e sicurezza alimentare della Coldiretti: «Secondo l’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, il 99,7 per cento dei prodotti italiani non contiene residui, ossia sostanze contaminanti o pesticidi, sopra il livello considerato innocuo per la salute. Anche in Campania il 98 per cento dei prodotti è senza problemi». Per fare un paragone: in Italia risulta «irregolare» lo 0,3 per cento dei prodotti, nel resto d’Europa la media è intorno all’1 per cento.
La produzione agricola del Sud è più inquinata?
No, aree potenzialmente a rischio sono ovunque: esistono 57 siti contaminati di interesse nazionale. «La loro bonifica è sotto la responsabilità del ministero dell’Ambiente» risponde Fabio Pascarella, responsabile del settore sitologia dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Sono al Sud (Umbria, Marche, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna) così come al Centro-Nord (Valle d’Aosta, Trentino, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana).
Significa che frutta e vegetali coltivati in quei luoghi sono meno sicuri?
No, significa che lì i controlli sono più stringenti. Inoltre un campo può produrre vegetali in regola anche se è vicino a un altro i cui prodotti non devono entrare nel mercato perché superano i livelli di soglia. «Nel caso della Campania, per esempio, i controlli ne hanno sempre scagionato i prodotti, tranne quelli provenienti dalla Terra dei fuochi, in cui c’è un problema ambientale grave ma circoscritto» afferma Antonio Paparella, docente di microbiologia degli alimenti all’Università di Teramo. La Terra dei fuochi, comunque, rappresenta solo l’1 per cento della superficie coltivabile italiana.
In Italia chi fa i controlli?
Il ministero della Salute coordina i controlli condotti da varie autorità: veterinari del servizio nazionale, medici dei servizi di igiene alimentazione, asl, istituti zooprofilattici, Corpo forestale. Nas (nuclei antisofisticazione) e Nac (nuclei anticontraffazione) intervengono su segnalazione. I controlli di routine vengono fatti dalle asl in base al piano nazionale (il numero di controlli è dettato dall’Europa), ma ci sono anche e soprattutto controlli locali, decisi in base ai luoghi più critici. «Ogni regione ha determinati alimenti da analizzare per eventuali contaminanti» precisa Maria Caramelli, direttore dell’Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. I controlli sono distribuiti in ugual misura al Nord e al Sud, anche se il loro numero varia in funzione del circuito commerciale.
Ci sono punti deboli nella rete dei controlli?
«Il costo degli esami è un punto cruciale: oggi un’analisi su un alimento per trovare diossina, per esempio, costa 1.000 euro. Abbiamo bisogno di test che possano fare numeri più grossi a costi minori» dice Caramelli. «Non tutti i laboratori sono all’altezza per analisi complesse, specie sui metalli pesanti» osserva Ettore Capri, professore di chimica agraria all’Università Cattolica di Piacenza. «Sarebbero più efficaci controlli su misura delle diverse filiere produttive, che tenessero conto dei punti criti ci di ogni coltivazione». Secondo Francesco Tarantini, presidente di Legambiente Puglia, «l’impressione è che spesso si aspetti che la gente si ammali per far scattare i controlli più accurati, soprattutto in un momento di crisi economica, nel quale la tentazione di tagliare sui costi è forte».
Le aziende svolgono controlli autonomi, oltre a quelli ufficiali?
Sì. Per la normativa europea il produttore è responsabile della sicurezza dei suoi alimenti. E, dal momento che ha l’obbligo di garantirne la qualità finale, spesso si rivolge a laboratori privati. Nei giorni scorsi, un gruppo di agricoltori della Terra dei fuochi ha chiesto a un laboratorio privato di analizzare prodotti coltivati nelle campagne di Acerra. E nei campioni analizzati, lattuga e finocchi, non c’erano metalli pesanti.
In che modo si contaminano i pomodori?
La contaminazione deriva da rifiuti scaricati illegalmente, all’aperto o interrati. «Se la discarica abusiva raggiunge una falda acquifera, l’acqua inquinata finisce in campi distanti» dice Sergio Costa, comandante del Corpo forestale di Napoli e provincia. «Quando troviamo un pozzo inquinato, dobbiamo bloccare sia l’uso del pozzo sia il terreno irrigato».
I metalli pesanti della Terra dei fuochi possono finire nelle conserve di pomodoro?
È difficile, anche perché il pomodoro proveniente dalla Terra dei fuochi era destinato al mercato del fresco, non all’industria della conservazione. «Gli imprenditori del settore conserviero si guardano bene dal prendere prodotti provenienti dalla Terra dei fuochi» aggiunge Paparella. «E c’è molta attenzione nei confronti di questi residui, sostanze facili da cercare e identificare». Non solo. Il pomodoro da conserva viene coltivato per il 35 per cento in Puglia, per il 34 per cento in Emilia-Romagna (intorno a Parma) e solo per il 5 per cento in Campania.
Esistono davvero pericoli specifici sui prodotti campani?
Al momento non esiste alcuna statistica che evidenzi problematiche maggiori. Anzi, ricerche condotte nel 2013 in aree limitrofe alla Terra dei fuochi e ritenute critiche per falde acquifere parzialmente inquinate (Giugliano, Castel Volturno e Caivano) hanno ridotto le percentuali di rischio a meno dell’1 per cento della superficie coltivabile. «Anche per il pomodoro la qualità delle produzioni locali non può essere messa in discussione» secondo Raffaele Pancrazio, ex numero uno del consorzio Anicav (conserve) e vicepresidente della Federalimentare. «Abbiamo moltissime denominazioni Dop, Igp e Igt e siamo tra i pochi a essere in grado di monitorare l’intera filiera, dalla raccolta alla confezione».
In Campania i controlli sono all’altezza?
«In Campania siamo all’avanguardia sui controlli perché ci siamo trovati in una situazione molto difficile» risponde Costa. «Da febbraio una tecnica innovativa ci consente di individuare sostanze tossiche sepolte illegalmente. Usiamo foto aeree che il Corpo forestale esegue ogni due anni sul territorio nazionale, incrociandole con i dati catastali». Un’analisi al computer valuta poi milioni di informazioni per capire se ci sono stati anomali movimenti di terreno (come quelli per seppellire rifiuti) o se c’è stata disseminazione di materiale tossico. «Se abbiamo il sospetto di attività illegali, il terreno viene analizzato con un geomagnetometro».
È vero che negli stabilimenti italiani si lavorano sempre più spesso ortaggi scadenti, provenienti da paesi come la Cina?
Falso. L’Italia, con un raccolto quasi doppio rispetto al fabbisogno, è un Paese a forte vocazione export, soprattutto nel prodotto trasformato (dati del monitor Distretti curato dall’Intesa-Sanpaolo). Inoltre i trasformatori italiani, compresi quelli campani, hanno aderito alle campagne in difesa del made in Italy minacciato da contraffazione e produzioni low cost. Queste ultime, fortunatamente, non hanno mai impattato sui conti: «Il cosiddetto pomodoro cinese» ricorda Pancrazio «in realtà è semplice concentrato utilizzato solo nei processi di trasformazione. È un ingrediente di bassa qualità usato dall’industria europea per ketchup e poi riesportato».
La contaminazione da metalli pesanti è frequente nei prodotti della terra?
I metalli pesanti si trovano soprattutto nel pesce. Frutta e verdura sono più esposte al rischio di fitofarmaci, micotossine, pesticidi o fertilizzanti oltre la soglia consentita.
Ci sono prodotti più a rischio di altri?
Molto dipende dalle pratiche di coltivazione. «Esistono colture più sensibili a essere contaminate perché richiedono più trattamenti o fertilizzanti, o sono trasportate per lunghi tragitti (l’importazione anche di pomodoro è elevata)» afferma Capri. «Colture irrigate troppo, cicli brevi e spinti usano più fertilizzanti; quelle in zone umide richiedono più trattamenti».
Che fine fanno i prodotti contaminati o pericolosi?
Una volta individuati, grazie al numero di lotto, sono rimossi dal mercato e mandati al macero. O, in casi particolari, smaltiti come rifiuti speciali. Se non sono pericolosi possono finire nei mangimi animali, dopo uno specifico trattamento. Il latte contaminato, infine, può diventare materiale per mattoni.
C’è modo di ripulire i terreni contaminati da metalli pesanti?
Sì, sono interventi costosi che funzionano molto bene soprattutto se il livello di inquinamento non è eccessivo. «Nel caso dei metalli pesanti, si può ripulire il terreno piantando pioppi e salici» spiega Lorenzo Ciccarese dell’Ispra, dipartimento difesa della natura. «Sono resistenti, crescono anche su terreni inquinati e assorbono i metalli dal suolo. Poi basta tagliare la pianta per smaltire gli inquinanti».
Qual è la dose di metalli pesanti che gli alimenti non devono superare?
L’Unione Europea ha stabilito la quantità massima tollerabile per piombo e cadmio, oltre la quale l’alimento non può essere commercializzato. I pomodori (così come le patate e le altre solanacee) non devono superare 0,1 milligrammi per chilo di peso fresco per il piombo, e 0,05 milligrammi per il cadmio. «Ma i legislatori sono lenti nel recepire i progressi nelle ricerche» avverte Ferdinando Langhi, vicepresidente dell’Associazione medici per l’ambiente Isde. «I limiti sono stati più volte abbassati, e sono fissati su adulti sani, non su bambini o anziani malati».
Se si consumano prodotti contaminati, quali rischi si corrono?
Il piombo può produrre danni al sistema riproduttivo, arsenico e berillio possono essere cancerogeni come alcuni composti del cadmio, che può essere tossico per il sistema riproduttivo o provocare alterazioni genetiche. «L’effetto reale però dipende anche da fattori come la sensibilità individuale o esposizioni ad altre fonti di inquinamento» precisa Loredana Musmeci, direttore del dipartimento ambiente e prevenzione primaria dell’Istituto superiore di sanità. Se una persona mangia tutti i giorni vegetali contaminati, potrà avere tossicità cronica su reni e fegato. È comunque molto difficile superare il livello di guardia. «Quando ci fu l’allarme sulle mozzarelle alla diossina, per avere un rischio alla salute i consumatori avrebbero dovuto mangiarne mezzo chilo a testa per periodi molto prolungati» rassicura Musmeci.
L’effetto tossico degli inquinanti si somma nel tempo?
Quello delle diossine sì, perché si accumulano nel tessuto adiposo, mentre i metalli vengono espulsi dall’organismo in un periodo che va da poche ore a pochi mesi.
A parte i pomodori della Terra dei fuochi, di recente ci sono stati altri prodotti agricoli pericolosi?
Sempre nella Terra dei fuochi, a Caivano (Napoli), sono stati appena sequestrati 13 pozzi irrigui e 15 fondi agricoli, in un’area di 43 ettari: le acque sotterranee avevano sostanze tossiche come fluoruri, arsenico, manganese. Sono passati invece sotto silenzio, ricorda Roberto La Pira, direttore del Fatto alimentare «1.100 casi di epatite A dallo scorso gennaio, concentrati nel Nord Italia e causati da frutti di bosco congelati provenienti dalla Polonia». Probabilmente a trasmettere il virus sono stati lavoratori portatori sani della malattia» dice Caramelli. «I frutti di bosco sono stati inviati in italia con marche diverse. E quando si scongela il prodotto il virus torna attivo».
Come può tutelarsi il consumatore al momento dell’acquisto?
Sul prodotto fresco è abbastanza semplice: sappiamo da dove arriva perché lo indica l’etichetta o il cartellino sul banco. Nelle conserve invece non c’è la rintracciabilità, e finché non sarà obbligatoria il consumatore non avrà modo di saperlo. «Meglio seguire una dieta variata, così da non esporsi in modo continuativo alle stesse sostanze tossiche» consiglia Musmeci.
In caso di sospetti, magari in seguito a un allarme alimentare, come ci si può difendere?
Si può guardare la rintracciabilità del lotto, un numero che l’industria conserviera deve indicare su ogni confezione. Se si hanno sospetti particolari, si possono avvisare le autorità sanitarie. «Abbiamo il maggior numero di controllori ufficiali, medici e veterinari delle asl, rispetto a tutti gli altri paesi europei» sottolinea Paparella.
La soluzione del chilometro zero ha senso?
Sì, ma solo se non si trasforma in un elemento fuorviante per i consumatori. «Le conserve, per esempio, sono concettualmente opposte all’idea di chilometro zero, ma nascono proprio per portare in tavola un prodotto di qualità elevata con caratteristiche e sistema di tracciabilità il più vicino simile al fresco» ricorda Pancrazio. «Senza contare che proprio la passione per il local ha fatto sì che molte frodi alimentari si siano concentrate sulla contraffazione di prodotti tipici. E senza differenza tra Nord e Sud» avverte Mara Monti, autrice con Luca Ponzi di Cibo criminale (Newton Compton, 2013). Qualche esempio? Prosciutti importati dall’Europa orientale e marchiati in Emilia come Parma dop, olio d’oliva greco e tunisino rietichettato in Toscana come extravergine del Chianti. E pomodori datterini low cost importati dal Marocco e rivenduti come Pachino.
Meglio l’orto di casa, allora?
Non è detto. All’Università tecnica di Berlino hanno condotto, quest’anno, una serie di rilevazioni a campione fra i tanti orti casalinghi in città: pomodori, piselli, carote, patate, cavoli, timo, menta, basilico, prezzemolo, bietole. Risultato: tutte queste specie avevano una concentrazione di cadmio, cromo, piombo e zinco (proveniente da traffico e veicoli) fino a 19 volte superiore rispetto alle coltivazioni di campagna.