Luca Pisapia, Il Fatto Quotidiano 14/11/2013, 14 novembre 2013
VITA DURA DA LEGA PRO
Giocatori che occupano lo stadio, dormendo negli spogliatoi, per protestare contro la società che non paga gli stipendi, altri che per lo stesso motivo sono sfrattati dall’appartamento in affitto e, lontani da casa e senza una lira in tasca, finiscono con il dormire in macchina. Ma anche società modello, che pagano puntualmente gli stipendi, stilano norme di condotta improntate a valori sportivi e si apprestano a dare l’assalto al calcio che conta. Benvenuti nel rutilante mondo della Lega Pro, la terza e la quarta serie del calcio italiano che da oramai un lustro ha sostituito la Serie C.
Feudo indiscusso del ragionier Macalli, che la governa da ormai oltre vent’anni, la Lega Pro è un formidabile strumento politico per l’occupazione delle poltrone e per la mediazione sportiva nel paese, un mondo che rappresenta quasi l’80 per cento del calcio italiano – dai piccoli comuni dove si gioca per passione alle grandi città dove il declino del calcio è simbolo di un più ampio degrado – e che però vale circa il 5% del-l’industria del pallone: sia in termini di costi che di ricavi. Un mondo a parte, dove lo stipendio minimo è di circa poco più mille euro al mese, solo che poi a 35 anni la tua carriera è finita e devi reinventarti il futuro. E dove invece alcuni calciatori che hanno calcato i campi di Serie A come i vari Evacuo, Troiano o Serafini, riescono anche a guadagnare 100-150 mila euro l’anno, come spiegano i ragazzi del sito Tutto-LegaPro, cifre ufficiali è difficile ottenerle.
Un mondo in cui è meglio essere una piccola realtà con una solida proprietà alle spalle, come la Virtus Entella a Chiavari, il Castel Rigone o la Pro Patria, e seguire magari l’esempio dello Spezia che adesso gioca in B, piuttosto che essere una nobile decaduta come Lecce, Perugia o Catanzaro dove le pressioni della piazza sono altissime, i costi spropositati e, se non si è subito promossi, si rischia il fallimento.
COME LA SALERNITANA, che due anni fa si giocava la B contro il Verona, poi perde e chiude la baracca. Il passo dal paradiso all’inferno non è mai stato così breve come nella Lega Pro di questi ultimi anni, e in mezzo ci sono una miriade di società in cui il calcio è donato ai tifosi dalla passione di un mecenate locale, o sottratto dall’avidità dell’imprenditore di turno, che utilizza il calcio per ottenere appalti pubblici o ingrossare il suo bacino d’utenza politico con la complicità delle amministrazioni comunali.
O ancora imprenditori forestieri che si presentano con la promessa del successo e l’unica vera intenzione di costruire un nuovo stadio, e quando scoprono che non riusciranno a farlo se la danno a gambe levate dichiarando anche lì fallimento. Un purgatorio che comprende 69 società (fino a qualche anno fa addirittura 90) che dall’anno prossimo saranno 60: per la prima volta non più divise in prima e seconda divisione, ma in tre gironi della stessa categoria. Un’unica Lega Pro dove le prime tre di ogni girone saliranno direttamente in Serie B e le altre migliori quattro classificate faranno dei playoff inter-gironi da cui chi uscirà vincente sarà la quarta e ultima squadra promossa. I soldi che arrivano dalle televisioni sono pochi, nemmeno un terzo del 6% della mutualità dei diritti tv (una ventina di milioni) che la Serie A è costretta a cedere a Serie B e Lega Pro, e allora ci si attacca alla Legge Melandri per quel che riguarda i contributi di sviluppo: per ogni minuto giocato da un giovane regolarmente schierato in campo in prima squadra, si ricevono dal Coni un tot di soldi per la formazione. E ci sono società che a fine anno, grazie alla mutualità, riescono a raggranellare qualche centinaio di migliaia di euro, tanti quanto ne prendono dalle televisioni. Poi ci sono i contributi federali e poco altro, bilanciati da idee meritorie come la penalizzazione di punti in caso di mancato pagamento degli stipendi, a revisione trimestrale, e l’obbligo di presentare fideiussioni bancarie per evitare fallimenti in corso.
MA IL RESTO DEI SOLDI deve metterlo qualcuno, che il pareggio di bilancio in Lega Pro è quasi impossibile, e allora ci si arrangia come si può, sempre con il mito della promozione e lo spettro del fallimento: ci sono finali di stagione in cui nelle partite decisive spariscono le bandierine del calcio d’angolo, di modo che l’arbitro debba fischiare l’inizio con quei dieci minuti di ritardo che permettono alla squadra di conoscere il finale della diretta concorrente; o campi di provincia in cui le bandierine spariscono del tutto, ogni tanto anche quelle del guardalinee reo di aver fischiato un fuorigioco non gradito. L’età media obbligatoria di 24 anni per almeno dieci dei giocatori in campo, su cui si è consumata una lunga battaglia, garantisce che la Lega Pro faccia da bacino di utenza per i giovani delle grandi squadre, mentre il proposto tetto agli ingaggi è stato affossato perché comunque c’erano mille modi per aggirarlo.
Questo è il mondo della Lega Pro, un cono d’ombra fuori dai riflettori dove i difensori si spalmano la crema scaldamuscoli sulle mani, per piantarle negli occhi dell’attaccante avversario e accecarlo momentaneamente. E dove nelle trasferte particolarmente a rischio il massaggiatore avversario ti accoglie negli spogliatoi con un cesto di paste e ti raccomanda che loro oggi vogliono fare festa, implicito che tu non gliela possa rovinare. Un mondo dove anche il calcioscommesse è fatto in casa, senza passare da Singapore, dove intere società sono smantellate per affiliazioni con clan camorristici e dove soprattutto giocano anche ragazzini ignari che si sono appena affacciati al mondo del professionismo, convinti che sia luccicante come lo raccontano i rotocalchi e i grandi giornali sportivi. Invece è un altro mondo, è la Lega Pro.