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 2013  novembre 14 Giovedì calendario

LA GUERRA TELECOM COME UN GRANDE ROMANZO CRIMINALE

Giorgio Meletti

I fatti sono quelli che sono. E costringono a parlare della grande guerra di potere su Telecom Italia con il linguaggio della cronaca criminale. Ieri mattina gli ispettori della Consob (l’Authority che vigila sulle società quotate in Borsa) hanno fatto irruzione negli uffici di Milano e di Roma del gruppo telefonico. E per garantirsi l’efficacia del blitz (servono sorpresa e simultaneità) hanno chiesto rinforzi a plotoni della Guardia di Finanza. La visita è destinata a durare settimane: saranno passati al setaccio migliaia di documenti, sia cartacei che digitali; saranno svuotati i cassetti ma anche le memorie dei pc dei dirigenti; saranno acquisite tutte le email degli ultimi mesi.
Intanto a Roma il procuratore aggiunto Nello Rossi ha aperto un fascicolo su Telecom. La notizia spiega il clima. Basti pensare alle parole pronunciate il 26 settembre scorso dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas. Tre giorni prima Assicurazioni Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo avevano ceduto alla spagnola Telefónica il controllo di Telco, la scatola che contiene il 22,5 per cento delle azioni Telecom e il controllo di fatto della società. “Il punto è capire se l’impresa funzionerà meglio o se sarà cannibalizzata”, disse Vegas. La parola chiave è dunque “cannibalizzata”, che fa seguito a “spolpata”, in voga negli scorsi anni. E dietro di essa si allineano le indagini in corso, ma anche la battaglia di Marco Fossati, azionista con il 5 per cento, che ha innalzato il vessillo delle minoranze offese.
GLI UOMINI della Consob vogliono verificare innanzitutto l’operazione di passaggio del comando a Telefónica. Perché gli spagnoli accettano di pagare ai tre soci italiani un prezzo di un euro per azione quando la quotazione al listino è 60 centesimi? Stanno pagando il prezzo del controllo? E dunque Telco controlla di fatto Telecom? E, se sì, perché non consolida l’ingente debito di Telecom, pari a 28 miliardi netti? Se quest’ultima domanda può sembrare molto tecnica, basta tradurla così: com’è possibile che si comandi su un colosso che vale in Borsa 11 miliardi di euro con un investimento di qualche centinaio di milioni?
Marco Patuano, amministratore delegato di Telecom Italia, appena si è dimesso il presidente Franco Bernabè in polemica con il nuovo corso Telefónica, ha portato in consiglio d’amministrazione esattamente ciò che Bernabè ha combattuto fino alla fine. In primis la vendita di Telecom Argentina, una partecipazione preziosa per il conto economico (Telecom va male in Italia), ma che dà fastidio ai nuovi padroni spagnoli che hanno le loro aziende in Argentina. Poi c’è la vendita delle cosiddette torri di Tim, le antenne della rete cellulare, che il giorno dopo la cessione Telecom sarà costretta ad affittare. Non sembra un buon affare.
Tutto questo per non mettere i capitali freschi di cui Telecom ha bisogno per rimettere in sesto una delle peggiori reti di telecomunicazioni d’Europa. Patuano si è limitato a varare un redditizio prestito obbligazionario convertendo, cioè che si trasformerà in azioni, da 1,3 miliardi, e lo ha fatto assegnare dall’advisor Morgan Stanley ad alcuni azionisti privilegiati e non a tutti. L’operazione si è chiusa la sera stessa che il cda l’ha deliberata. La Consob indaga su tanta rapidità, e vuol capire se Patuano prende ordini dal capo di Telefónica, César Alierta.
Il figliastro numero uno è Fossati. Figlio di Danilo, l’uomo del brodo Star che si suicidò misteriosamente nel 1995, ha perso molti soldi (provenienti dai dadi) con le azioni Telecom. Oggi ha il 5 per cento e i maligni dicono che la sua visita in Mediobanca il giorno che si chiudeva l’accordo con Telefónica fosse dettata dalla (vana) speranza di ottenere anche lui un euro per azione.
ADESSO ha dichiarato guerra. Sta tentando di convincere i grandi fondi d’investimento a votare per la sua proposta di revocare i consiglieri eletti da Telco. Ha ottenuto la convocazione di apposita assemblea per il 20 dicembre, e nei suoi sogni potrebbe celebrarsi un ribaltone da film americano. Tecnicamente è possibile. All’ultima assemblea, lo scorso aprile, erano presenti 5,8 miliardi di azioni Telecom, e quelle di Telco erano 3 miliardi. Se tutti i fondi si mettono d’accordo possono vincere. Per questo ha fatto storcere il naso che Telecom abbia affidato il collocamento del già discutibile prestito obbligazionario alla Morgan Stanley, guidata in Italia dall’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco, che era fino a due giorni fa anche presidente dell’Assogestioni, la lobby dei fondi italiani. Quelli che dovrebbero votare a dicembre contro il cliente di Siniscalco, Patuano. Siniscalco si è dimesso per motivi di opportunità da Assogestioni. Ma lo stile del capitalismo italiano è questo.